“Senza soldi non si canta messa”, così recita un famoso proverbio calabrese che richiamiamo per riferirci alla situazione di difficoltà finanziaria in cui si vennero a trovare i rivoluzionari del ’48 siciliano.
Una rivoluzione, per consolidarsi, ha bisogno anche, se non principalmente, di risorse finanziarie adeguate, e questo fu il problema che, infatti, assillò coloro che si erano assunti l’onere di dare assetto al resuscitato regno di Sicilia dopo l’enfasi rivoluzionaria.
Per fortuna, però, la credibilità di cui godevano gli esponenti del governo siciliano, consentì di superare, quasi subito la stessa difficoltà senza necessità di ricorrere ad interventi esterni. A dare ossigeno al governo, considerato affidabile, ci pensarono infatti grossi finanzieri palermitani, gente che si era arricchita nei decenni precedenti, che non ebbero remore ad aprire i cordoni delle loro borse.
A ristorare le finanze del governo provvidero, infatti, con una generosità che definiamo pelosa, ricconi come Gabriele Chiaramonte Bordonaro, Vincenzo Florio, Francesco Varvaro o Beniamino Ingham. I crediti concessi furono negoziati caricando sui debitori interessi altissimi, sicuramente superiori alla media corrente e, quel che è più interessante, riguardava le garanzie furono date ai finanziatori. Non avendo disponibilità d’altro, il governo, come pegno, trasferì infatti argenterie nelle casse dei creditori oggetti molti oggetti preziosi che erano stati confiscati, con provvedimenti di dubbia legittimità, alla Chiesa e agli ordini religiosi.
I finanziatori erano, dunque, “in una botte di ferro”. Ma, per insistere con i proverbi, “non tutte le ciambelle riescono col buco” e anche agli speculatori può capitare di inciampare. La rivoluzione fu, come sappiamo, soffocata dalle armi del principe di Satriano ed i napoletani tornarono padroni della Sicilia e fecero sapere di non avere alcuna intenzione di riconoscere i crediti contratti dai rivoluzionari del ’48.
A questo punto, ai finanziatori della rivoluzione, non restava che consolarsi con i beni che erano stati dati loro in pegno. Ma anche questa consolazione venne negata fu, infatti, evidente che essi, e qui richiamiamo un altro proverbio, “avevano fatto i conti senza l’oste”. Il principe di Satriano, disconoscendo le disposizioni del governo guidato da Ruggero Settimo, aveva ripristinato lo status quo ante anche per quanto riguardava gli espropri e le appropriazioni illegali. I beni dati in pegno dovevano, dunque, essere restituiti senza alcun indennizzo ai precedenti proprietari, cioè chiese e ordini religiosi.
L’operazione di finanziamento si risolse, dunque, in una perdita secca per chi vi si era avventurato. Scrivo questo perché, il barone Riso, al quale con insistenza era stato richiesto di unirsi agli altri finanziatori, con un intuito non comune, alla richiesta dei rivoluzionari, aveva opposto un secco diniego, non se la sentì di rischiare, in un’operazione di incerto risultato, quel patrimonio che prima il padre e poi lui stesso, avevano accumulato con operazioni spesso oltre i limiti della legalità.