Carissimi
Accade a chi ha avuto dei maestri, ma non ha mai avuto dei padrini, di incontrare persone che ti lasciano degli insegnamenti, anche involontariamente che ti porti per tutta la vita.
Sono dei gesti, degli episodi dei quali ti appropri e ti ritrovi nei momenti opportuni senza che te ne renda conto, convinto che questi facciano parte di un tuo patrimonio genetico e poi ti ricordi di averli vissuti attraverso la vita di qualcun altro.
I maestri sono veramente un dono prezioso, ma purtroppo andando avanti scopri che di questi al massimo nei potrai contare nella tua vita meno delle dita di una mano, mentre tutti gli altri, che in apparenza ti ricordano dei fondamentali insegnamenti, appartengono alla schiera seppur dignitosissima dei professori, coloro che seguono un programma per ciò che dovranno insegnarti, un canovaccio pieno di cose che dovrai sapere, che dovrai ricordare.
Il maestro è maestro di insegnamenti attraverso la sua stessa vita.
Premetto che “maestro” a Palermo è il titolo con il quale ci si rivolgeva con il rispetto che si dà alla persona più anziana che non si conosce magari cedendo il passo tra le gradinate dello stadio, in mezzo a tanta gente, alla stessa stregua di come il vicino di posto era detto “cuscinu” al momento di chiedergli qualcosa non conoscendone il vero nome.
È vero, lo stadio era luogo di parentele allargate e di titoli facilmente assegnati durante la condivisone di una attenzione che stava non tra di noi, ma dentro un rettangolo di gioco, ma non era quello il maestro a cui mi riferivo, così come non era l’allenatore della squadra di calcio detto con termine inglese e per rispetto “mister”.
Ricordo un episodio dei tempi dell’università. Avevo smesso di fare atletica non potendo (all’epoca) sostenere gli impegni degli allenamenti e quello presomi volendo diventare ingegnere e diplomarmi bene, decisi di prendermi un impegno più sostenibile, andando ad allenarmi con una squadra di calcio di terza categoria, mettendo a frutto le mie doti atletiche per riuscire ad entrare in organico.
Al secondo allenamento pomeridiano dopo una mattinata a scuola, rimasi tra le panche dello scalcinato spogliatoio a parlare con l’allenatore che tutti i compagni finito di cambiarsi e ritornando ai loro dignitosissimi lavori (chi di ragazzo della spesa, chi di artigiano, chi di uomo di fatica) uscendo dall’allenamento e afferrata la loro voluminosa borsa sportiva, nel lasciare il campo con referenza salutavano “buon pomeriggio mister”.
Il mister, annuendo con la testa in senso di ringraziamento, bacuccato con l’abbigliamento sportivo di una volta, il doppio di tutto indosso (per ripararsi e paradossamele sudare), il doppio paio di calzettoni di lana sfondati, il berretto di lana ricucito dalla moglie casalinga e le scarpacce, una volta di marca (comprata con i risparmi) appesantito dagli anni e dalla fatica di un turno di lavoro in fabbrica, registrava il giusto rispetto che un gruppo dovesse mostrare al suo allenatore.
Il mister, maestro per quei giovani ragazzi in cerca di un sogno e che a sua volta metteva in campo una passione e il ricordo di sogni che furono, curioso di questa nuova presenza volle sapere di più da me e sulla mia occupazione e sentito dei miei studi, preso consapevolezza che io in quell’ambiente ero un intellettuale in corsa per il premio Nobel, mi ascoltava con ammirazione. Ci salutammo ma non ebbi la forza di chiamarlo mister, ma solo con il suo cognome, signor ….
L’episodio mi colpì molto, questo buon uomo, con quel freddo e sotto la pioggia, i segni di un vissuto pesante, malgrado tutto era lì in quei pomeriggi con la sua grande passione, a vivere il suo mondo in un ambiente e rispettato nel ruolo, era “un maestro per quei giovani”.
Fu così che tornai a cercare colui che era stato il mio allenatore per tre anni, nel periodo della mia crescita adolescenziale e lo raggiunsi nello spogliatoio della sua palestra. A fine allenamento, ci sedemmo accanto e gli raccontai l’accaduto dicendogli di come, a lui laureato professore ISEF e maestro dello sport, mai mi sarei sognato di chiamarlo “mister” o “maestro”.
Ci ridemmo su e lui mi disse che era giusto così, in entrambe le situazioni, il rispetto di un ruolo non era dato dai titoli, ma dal ruolo stesso nella gerarchia, ma ancor prima dalla “autorevolezza” guadagnata con la fiducia e il rispetto degli altri.
Finì lì la mia brevissima carriera nel mondo del calcio “tesserato”, forse sarei diventato un novello “dottore del calcio”, ma ero già andato avanti, da quella esperienza imparai ciò che mi porto ancora nel cuore ogni qualvolta osservo tutte queste autorità nominate, tutte queste poltrone occupate, tutti questi titoli accattati …….
Non era la scienza, né il denaro, né il ruolo che dava autorevolezza a quell’operaio “mister” con il doppio calzettone di lana bucato. Avercene oggi, si diventa “maestri” perché si è da esempio per il prossimo. Un abbraccio, Epruno.