Per la nostra “E State in Sicilia”, vogliamo proporvi di mettervi in viaggio con Ulisse e toccare, come se foste lui e i suoi occhi, le tappe isolane del suo viaggio, della sua Odissea. Partendo dal “Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante” di Khalil Gibran, chiedendovi se vi sentite più dominati dalla prima o dalla seconda, sappiate che il nostro eroe, secondo noi, le incarna entrambe perché è simbolo dell’uomo che, con la forza dell’ingegno e con quella datagli dall’attaccamento alla sua terra e alla sua famiglia, affetto com’è da un torcicollo sentimentale, riesce a superare tutte le difficili prove a cui viene sottoposto.
Cari viandanti del mare, siete pronti per questa avventura? Siete pronti per vivere l’Odissea, come metafora di partenza e ritorno di quello straordinario viaggio, a volte accidentato e altre privo di asperità, che è la vita? Noi ci soffermeremo alle tappe siciliane ed ecco emergere immediatamente la prima querelle perché, secondo la maggior parte degli studiosi, Omero chiamava la Sicilia “Trinacria“, Θρινακίη, da τρεῖς «tre» e ἄκρα «promontorio»; secondo il noto professore settecentesco di lettere greche, Giacomo Martorelli, invece, appoggiato dal suo allievo Michele Vargas Macciucca, quando il cieco vate raccontava l’isola, descrivendola angusta e non vasta, come realmente è, identificava l’isola del Sole con Ortigia, la fonte, nei pressi del mare, con quella di Aretusa e la solitaria spelonca in una grotta nell’isolotto siracusano di cui, nei suoi scritti, parla il Fazello, poeta, oratore e teologo siciliano. Giacomo Martorelli scrive: «Ora è d’uopo ravvisare il sito di quest’isoletta, la quale sì misera ci vien descritta da Omero, e solo di qualche fama, perché in essa pascevansi gli armenti del Sole. E certamente non poteva esser altra, che quella, che vedevasi avanti Siracusa, che col falso nome i figli di Omero l’appellarono Ortigia, dimentici affatto del suo vero nome di Θρνακίη (-α)».
Il professore voleva dare al termine Trinacia, di conseguenza, Θρινακία che sarebbe Ortigia, un’origine fenicia, tesi rigettata da altri autorevoli studiosi, come Luigi Pareti che afferma, invece che, sia in Sicilia che in Italia la derivazione degli alfabeti non deriverebbe dai prototipi fenici, ma dagli alfabeti greci e che, nella zona orientale dell’isola, i rapporti commerciali con i fenici incominciarono solo nel VI secolo a.C., dopo la fondazione di Gela. Adesso, però, è arrivato il tempo di andare alla scoperta della nostra isola del mito.
L’Isola dei Ciclopi
Quest’isola, che si affacciava per Omero sul paese dei Lotofagi, mangiatori di Loto, frutto che produce oblio, identificata da alcuni con le coste dell’attuale Libia, secondo altri con l’isola di Djerba in Tunisia, nel IX Libro, viene descritta così da Ulisse:
“E arrivammo alla terra dei Ciclopi superbi e senza legge, i quali, fidando negli dei immortali, non piantano, non arano mai: nasce tutto senza semina e senza aratura, il grano, l’orzo e le viti che fioriscono di grappoli sotto la pioggia di Zeus. Davanti al porto non troppo vicina né troppo lontana dalla terra dei Ciclopi c’è un’isola piatta e selvosa, dove vivono capre che belano, potevano fare bella quest’isola che non è sterile e darebbe frutti ad ogni stagione. Vi sono dei prati, lungo le rive del mare, morbidi e freschi; viti perenni che potrebbero starvi a dimora”.
Le indicazioni la identificherebbero con Aci Trezza, borgo marinaro in provincia di Catania, in cui si stagliano i faraglioni o Isole dei Ciclopi, otto scogli basaltici di origine vulcanica che, secondo la leggenda tramandata da Omero, vennero scagliati da Polifemo contro Ulisse in fuga. Acitrezza è una delle tante perle della nostra isola, luogo d’incantamento, che incuriosisce anche per l’origine incerta del suo nome: la prima ipotesi la farebbe derivare dai “tre pizzi” dei faraglioni; la seconda, dell’Arciprete De Maria, dalle fabbriche di laterizi che avrebbero dato il nome alla contrada “Acis Lateritie”; un’altra ancora da uno scoglio, che si trova “a venti passi dalla ripa”, chiamato Trizza e, per metonimia, passato all’intera zona, dove sorse successivamente il paese. Noto grazie a Giovanni Verga, che vi ambientò i Malvoglia, e a Luchino Visconti, “La Terra trema”, è un luogo dell’anima da visitare, quando sarà di nuovo possibile. Imperdibili sono: il “Museo della Casa del Nespolo”, piccola abitazione di due stanze che si affacciano su un cortile con il famoso nespolo, da cui il nome, un tuffo nel suo meraviglioso mare e, per concludere, una indimenticabile granita, possibilmente, alle mandorle.
L’’isola di Eolo:
“E all’isola Eolia arrivammo; qui stava Eolo Ippotade, caro ai numi immortali, nell’isola galleggiante: tutta un muro di bronzo, indistruttibile, la circondava, nuda s’ergeva la roccia”.
Si narra che Eolo, giunto alla corte di Liparo, re degli Ausoni, che, abbandonate le coste campane, in seguito a una lite con i fratelli, vi approdò dandole il suo nome, ebbe in sposa una sua figlia e il regno, in cambio del suo ritorno sulle coste campane, rimastegli nel cuore, cosa che, come da promessa, avvenne. Qui si innesta il nostro Ulisse, l’eroe più contemporaneo in quanto portatore di armonia e caos, luce e tenebre, conosciuto e ignoto, quiete e tempesta, che, reduce dalla guerra di Troia e privo della sua nota spavalderia, giunto al cospetto di Eolo, conquistatolo con la sua drammatica storia, ricevette in dono un otre di pelle, custode dei venti contrari alla navigazione con cui ritornare nell’amata Itaca, sogno rimandato a causa della curiosità dei suoi compagni di navigazione che aperto il contenitore, creduto depositario di tesori di inestimabile valore, liberarono le correnti più violente, scatenando una terribile tempesta.
Appena arrivati a Lipari, ovunque vi troverete, non potrete fa meno di ammirare il suo Castello, su un promontorio a strapiombo sul mare, la cui imponente cinta muraria risalente al 500, costruita ad opera di Carlo V a protezione della città, dopo l’attacco del pirata tunisino Kairedin Barbarossa che l’aveva conquistata e distrutta, lo rendeva inaccessibile. Il plesso del Castello è, inoltre, sede di varie strutture religiose tra cui la chiesa di Santa Caterina (XVI-XVIII secolo), nelle cui vicinanze potrete trovare gli scavi che mostrano i resti delle capanne risalenti all’età del bronzo e, in prossimità, la scalinata del Concordato edificata nel ‘900 con lo scopo di collegare la Cattedrale di San Bartolomeo con il centro abitato, e la Chiesa dell’Addolorata del XVI secolo caratterizzata da una facciata di stile barocco. Sempre all’interno è custodito il museo archeologico eoliano Bernabò Brea, che conserva i resti che testimoniano l’importante storia di Lipari quale importante centro economico, religioso e culturale dell’intero arcipelago. Siccome la Sicilia è arte, cultura, cibo, mare e spiagge, avrete l’imbarazzo della scelta tra Canneto, Acquacalda, Porticello, Spiaggia Bianca, Valle Muria, Spiaggia Papesca, Praia di Vinci, Scogli Le Formiche, Faraglioni di Pietralunga e Pietra Menalda e la Spiaggia di Marina Corta che merita qualche parola in più. E’ una delle porte d’ingresso nell’isola che, estendendosi accanto al porto, ha come magnifiche visioni le chiese che si affacciano sul mare, tra le quali la seicentesca Chiesa di San Giuseppe, costruita sopra la cripta che custodiva le reliquie di San Bartolomeo, al cui interno troviamo affreschi e sculture del tardo seicento di artisti locali e una rappresentazione della grotta di Lourdes con la Madonna e Bernadette, e la Chiesa delle Anime del Purgatorio, in cui è allestito un bellissimo “Presepio del Mare”.
L’Isola di Circe
Nel X Libro dell’Odissea Omero narra le vicende che vedono l’approdo di Ulisse e dei suoi compagni sull’Isola di Eea, abitata da Circe. Ulisse, con i suoi compagni, sbarcati nella notte, riposarono per due giorni e due notti, al terzo giorno:
“Allora io la mia lancia prendendo, ed il coltello affilato, rapidamente, lasciata nave, salivo in vedetta, se opere mai di mortale vedessi o sentissi la voce. E su una cima rocciosa m’inerpicavo ad esplorare e mi apparve del fumo su dalla terra ampie strade, e in casa di Circe, tra i folti querceti e la macchia”.
Questi riferimenti, e il percorso successivo con direzione Nord-Est, condurrebbero a Ustica, l’isola in cui Omero e la mitologia classica fanno risiedere Circe, l’affascinante maga che trasformava in animali gli sprovveduti che le si accostavano, chiamata dai Greci “Ostèodes”, l’Isola delle Ossa degli Uomini Morti e legata alle sirene che, racconta il poeta, stavano sedute su un prato, o appollaiate su una roccia, con tutt’attorno “un gran cumulo di ossa umane”. Le sirene si narra che cantino ancora a Ustica, ammaliando l’uomo e le forze della natura. L’invisibile, su quest’isola, continua a sovrapporsi al visibile, l’ignoto al noto, il cielo al mare, protagonista assoluto, tanto che Ustica è stata la prima Area Marina Protetta in Italia fin dal 1986, il primo percorso archeologico mondiale nel 1990, sede dal 1959 della Rassegna Internazionale di Scienze e Tecniche Subacquee. Le scogliere di lava scurissima si animano sott’acqua grazie alla fauna e alla flora marina che la rendono meta ambita per gli appassionati di immersioni.
L’Isola di Ogigia
Ogigia, in lingua greca Ὠγυγίη, è l’isola di Calipso, dove Ulisse si ferma per ben otto anni. La ninfa si innamora a tal punto dell’eroe itacese da non volerlo più lasciar partire se non a seguito di un ordine esplicito di Hermes, a sua volta inviato da Zeus. Ogigia, per alcuni identificata appena fuori dallo stretto di Gibilterra, per altri nell’isola di Gozo, dove è possibile visitare la “grotta di Calipso”, per noi siciliani, sposando la tesi di Butler, invece, è l’isola di Pantelleria. Omero, per Ogigia è categorico, si tratta di una terra solitaria, che non ne ha altre vicine, ombelico del mare, “omphalos”, isola sacra sede di una divinità. Il misterioso nome di Calipso, personificazione della preistorica Dea dell’Amore, che a Pantelleria era presente, conduce a uno dei suoi luoghi più magici, lo Specchio di Venere. D’altronde, etimologicamente, ha la radice Kel, che significa velare e, quindi, Kalipso è l’occulta, la nascosta. Inoltre ha la stessa radice di Kimelio, Cimmilia, “tesoro”, località impregnata di sacralità dove il popolo dei Sesi, circa 5000 anni fa, in arcaniche costruzioni, tombe o templi, si narra apprendessero il il segreto iniziatico “dell’eterno ritorno”. Importanti testimonianze archeologiche, in contrada Mursia-Cimillìa, ne testimoniano lo sbarco. Una curiosità, che vogliamo porre alla vostra attenzione, è che in una antica lingua mediterranea pre-indoeuropea, con il termine Gug si indicava proprio una pietra rossastra, “Terra sacra” perché bagnata dal sangue della grande dea madre, e con Gi-Gun, invece, luogo abitato dal divino: Gigun, Ogigia, Omphalos.
Ultima suggestione di Samuel Butler (1835 – 1902), scrittore inglese e autore del libro “The authoress of the Odyssey”, pubblicato nel 1897, è quella secondo cui la Scheria, terra dei Feaci, dell’Odissea, fosse in realtà la città di Trapani, destando nel suo paese incredulità e sconcerto. Dopo aver tradotto dal greco l’Odissea, e aver compiuto una serie di viaggi in Sicilia, si convinse, inoltre, che l’Odissea fosse stata scritta da una giovane donna siciliana celatasi nel personaggio di Nausicaa, la figlia di Alcinoo, re di Scheria, avendo riscontrato nella civiltà siciliana i requisiti descritti nel poema. Osservando, alle spalle della Torre di Ligny, uno scoglio davvero particolare, che nella forma lunga e stretta ricorda quella di una imbarcazione, chiamato dai trapanesi “scoglio du malu cunsigghiu”, cioè “scoglio del mal consiglio”, Butler ebbe la suggestione di vedere la nave di Alcinoo tramutata in pietra da Nettuno, adirato contro i Feaci che avevano cercato di condurre Ulisse sano e salvo in patria.
Butler, grato all’antica Drepanon e ai suoi abitanti che lo avevano aiutato nelle sue ricerche sul campo, dispose, per testamento, che il manoscritto del suo tanto discusso libro venisse donato alla biblioteca di Trapani, cosa che avvenne il 6 maggio 1903 grazie al suo amico H. F. Jones, suo alter ego, nato nel 1851 da agiata famiglia, che lo accompagnò spessissimo nei suoi viaggi e ne condivise le esperienze.
Scilla e Cariddi
Scilla, “colei che dilania”, e Cariddi, “colei che risucchia”, i due mostri a cui Ulisse riuscì a sfuggire, pur perdendo dei preziosi compagni di avventura, per tradizione corrispondono allo Stretto di Messina. Tra le leggende, appartenenti al patrimonio culturale dell’antica Messina, la più nota ricorda l’esistenza del mostro Cariddi, mitica personificazione di un vortice formato dalle acque dello Stretto. Per alcuni, infatti, Cariddi era la ninfa, figlia di Poseidone e Gea, tormentata da una grande voracità, che avrebbe rubato e divorato i buoi di Eracle, passato dallo Stretto coll’armento di Gerione e, per punizione, trasformata da Zeus in un orribile mostro. Omero fu il primo a parlarne nel canto XII dell’Odissea, dicendo che ingoiava tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla trattenendo, però, tutti gli esseri viventi che vi trovava.
“altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe”.
Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo, per questo perse i suoi rematori migliori. Dopo la distruzione della sua nave, tuttavia, il nostro eroe riuscì ad aggrapparsi a una radice di un fico sull’isola di Cariddi, prima di venire inghiottito.
Concludiamo questo nostro viaggio di suggestioni e luoghi, sospesi tra mito e realtà, da visitare in questa nostra “E State in Sicilia”, con: “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L’orizzonte dev’essere vuoto e deve staccare il cielo dall’acqua ci dev’essere niente intorno e sopra deve pesare l’immenso, allora è viaggio” di Erri De Luca.
Il nostro Grosso Grasso Patrimonio Siculo, continua.