Un padrino non muore mai nella memoria dei suoi cari. E’ la trama di una piccola spoon river in salsa mafiosa. Puntuali come gli angeli della morte, i familiari di Francesco Messina Denaro (morto il 30 novembre del 1998) anche quest’anno hanno pubblicato un necrologio per ricordare il capofamiglia – in tutti i sensi – della cosca di Castelvetrano.
Sobrio, didascalico, è il messaggio pubblicato quest’anno sulle colonne del Giornale di Sicilia che riporta soltanto il nome del morto, la data del decesso e quella della ricorrenza. Firmato “i tuoi cari”. E’ in atto una sorta di “spending rewiew” letterale per la famiglia Messina Denaro. Stitichezza verbale. Quasi un ritorno all’omertà.
E’ un cambio di passo “pubblicare” soltanto il nome del “caro” estinto, per un clan che in passato si esibiva nel tessere sperticate lode sulle qualità morali e religiose del boss di Castelvetrano. Nei necrologi del passato spuntava talvolta la firma di “i tuoi familiari”, precisando “tutti”. E più d’una volta la storia del padrino capofamiglia è stata raccontata in necrologio con metafore tratte dalla Bibbia e dal Vangelo. Tra le parole da dedicare al caro defunto anche il Vangelo di Matteo, l’apostolo ovviamente, con il passo delle beatitudini, “Beati quelli che sono perseguitati per la giustizia, perchè di loro è il regno dei cieli”.
Per gli investigatori la smania commemoratrice divenne un rompicapo, con analisti coinvolti nel tentare di dare un senso logico “sotterraneo” per comprendere se quelle frasi celassero un eventuale codice occulto. Non venne fuori niente.
C’è anche da dire che le famiglie non sono più quelle d’una volta. E anche all’interno del cerchio sacro dei Messina Denaro si iniziano ad avvertire sinistri scricchiolii. Matteo è sempre più solo. Magistrati e forze dell’ordine hanno sradicato una consistente parte della sua rete “imprenditoriale” e dei suoi collaboratori. Nella maglie della giustizia sono finiti fratello, sorella e una vasta teoria di affiliati apparentati a vario titolo con il boss latitante. Così, c’è sempre meno tempo e meno voglia di scrittura “aulica”. Resta ben poco del Matteo Messina Denaro che amava paragonarsi a Benjamin Malaussene, il capro espiatorio dei romanzi di Daniel Pennac.
Niente in realtà ci sarebbe da ricordare di Francesco Messina Denaro se non la sua orribile caratura da criminale mafioso. Campiere nelle tenute della famiglia di banchieri D’Ali Staiti, era in realtà, tra i capi mafiosi degli anni ottanta, il più prezioso tra gli alleati della Cosca corleonese delle belve Riina e Provenzano.
Insieme a Mariano Agate, Messina Denaro senior, si schierò a fianco di Riina e Provenzano contro i clan palermitani e i loro sodali della Sicilia occidentale, dai Rimi di Alcamo ai Minore di Trapani. Ed è considerato tra i mandanti dell’omicidio del giornalista e guru di Saman, Mauro Rostagno. Anche il ritrovamento del suo cadavere rappresentò un’occasione per una dimostrazione di potere da parte dei Messina Denaro. Il padrino di Castelvetrano, latitante dal 1989 per una condanna definitiva a 10 anni per mafia, ebbe la fortuna di morire di vecchiaia. La sua salma, vestita di tutto punto, venne ritrovata nelle campagne di Castelvetrano. Quando la vedova, Lorenza Santangelo, venne chiamata dalla polizia per il riconoscimento della salma, stese sul cadavere un pregiatissimo cappotto di Astrakan. Ma quel gesto non voleva essere una citazione del capolavoro di Piero Chiara. Per i “peri incritati” della mafia di Castelvetrano, quel cappotto era solo ostentazione del potere mafioso.