Due settimane prima dell’omicidio di Felice Orlando, nel 1999, un collaboratore di giustizia che lo conosceva bene l’aveva definito “un morto che cammina”. Era segnata la sorte dell’imprenditore dello Zen che fu ucciso nella sua macelleria con sette colpi di pistola. Un omicidio eclatante per il quale cono stati condannati questa mattina – in abbreviato, davanti al gup Gioacchino Scaduto – Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio. Per i due una condanna 30 anni con la riduzione per il rito. Sarebbe stato ergastolo (come avevano chiesto i pm Annamaria Picozzi e Alessia Sinatra) se non fosse stata dichiarata prescritta la detenzione di armi.
I boss di San Lorenzo volevano dare una punizione esemplare al negoziante. A raccontare le motivazioni che portarono all’esecuzione è stato recentemente un altro pentito, Antonino Pipitone, rampollo della famiglia di Carini, che in quegli anni era uno degli astri nascenti della mafia della zona. “Orlando dava fastidio e si era parlato di ucciderlo”, ha raccontato.
I dissidi sarebbero stati dovuti a una spaccatura sulla gestione del mandamento e al probabile tentativo di Orlando di farsi largo nel clan. Un giorno, secondo il racconto di Pipitone, Salvatore Lo Piccolo sbottò: “Questo sta rompendo troppo”. Era stata emessa la condanna a morte. Gli inquirenti capirono subito che si trattava di dissidi interni, ma è stata la collaborazione di Pipitone a portare gli essenziali riscontri per la condanna. Felice Orlando, a detta degli inquirenti, avrebbe cercato di “allargarsi”, di fare il passo più lungo della gamba: voleva scalzare l’uomo di fiducia dei Lo Piccolo allo Zen. Anche il luogo scelto per l’omicidio non fu casuale, i boss avrebbero voluto dare un segnale di controllo del territorio per mettere in chiaro i rapporti di forza nella zona.