Mi ostino a truccare le mie labbra con il rossetto, anche se in pochi lo vedranno. Tra l’altro, le mascherine che si avvicenderanno sul mio volto verranno inevitabilmente imbrattate. Si tratta di un atto di ribellione al clima che viviamo e a quella me stessa che, durante il lockdown, indossava sempre gli stessi vestiti ed era arrivata al fondo della sua sciatteria? Ebbene, eravamo solo agli inizi.
Non ci sono più i cori dai balconi, gli arcobaleni, i palloncini a forma di cuore: siamo nel pieno del ritmo frenetico delle nostre vite, anche se il pericolo adesso è vicino, prossimo, possibilmente nello stesso pianerottolo o già dentro, serpeggiante nei nostri appartamenti. Le sirene delle ambulanze irrompono giorno e notte. Si avvicinano. Non c’è tempo per riflettere, si deve correre, raggiungere il posto di lavoro, trovare posteggio, arrivare trafelati. In isolamento ci stanno i positivi conclamati o i partecipanti al Grande Fratello Vip (Vip? Ma chi sono?), che, come i giovani dell’allegra brigata del Decameron stanno rinchiusi insieme, ma non ci raccontano storie con fabula e intreccio, analessi e prolessi, ellissi. Non ci fanno ridere, non lasciano schiudere la nostra immaginazione.
Li vediamo con i volti disfatti, loro che hanno fatto tanto e speso tanto in palestre e chirurgia plastica. Le loro storie assomigliano di più a ciò che per oggi si intende una storia: quella istantanea di Facebook o Instagram, senza trama e senza una sapiente narratore. Eppure, mentre un Paese si ammala, è in rivolta, mentre un Paese sta morendo, si ha l’ardire di proporre una trasmissione come questa, dove l’isolamento non è pensato come un momento di riflessione e creatività, ma come un modo per dire alla gente: «Guarda, spia la vita degli altri: la tua è troppo insignificante!».
E a guardare quelle facce finte (oddio, non è che proprio stia appiccicata alla tivù), nell’ostentazione di una giovinezza costruita a tavolino, nel loro tentativo di procrastinare la vecchiaia per sentirsi immortali, ci vedo i segni della morte che si insinua grottesca in mezzo al botulino dei loro volti da fantocci. Eppure Ulisse aveva rinunciato al dono dell’immortalità che gli aveva proposto la ninfa Calipso; prima di lui, Gilgames. Gli antichi già volevano dirci che gli abbracci, gli addii, le gioie degli affetti più cari, le nostre rughe sul volto siamo noi.
Nella società di oggi, la morte è inattuale, nonostante le sirene delle ambulanze e gli assistenti sanitari rivestiti di scafandro bianco, gli ospedali al collasso e la paura dilagante. La morte è antiquata: si preferisce educare i bambini a vestirsi da streghe e diavoli per festeggiare Halloween, una festa importata, piuttosto che portarli al cimitero dai defunti perché potrebbero rimanerne traumatizzati. Evocando le streghe, indossando l’abito della morte no, di sicuro. Ma i defunti, le ascendenze familiari sono appunto antiquati, roba lugubre, per l’appunto. I morti però sono sotto ai nostri piedi, sarebbero i giganti sulle cui spalle noi nani potremmo guardare più lontano, ma siamo ciechi, siamo sordi mentre rincorriamo l’immortalità, trastullandoci in un benessere apparente che probabilmente, con la crisi in corso, è già svanito.
Tra qualche giorno ricorrerà la Commemorazione dei Defunti, per fortuna ancora molto sentita in Sicilia, senza la fiera quest’anno, giustamente e purtroppo. Se le ordinanze non lo vieteranno, molti di noi si recheranno al cimitero, sottoponendosi a quella “corrispondenza di amorosi sensi” che il poeta Ugo Foscolo riteneva ‘celeste’, senza contemplare la presenza di un Dio o di dèi e forse per questo più significativa. Assaggeremo i frutti di Martorana, inconsapevoli di assaggiare in realtà i chicchi di melograno che Ade aveva fatto mangiare a Proserpina per ricondurla a sé, per sei mesi l’anno, quelli dell’autunno e dell’inverno. E in autunno, non a caso, si festeggiano i morti perché il mito risponde sempre ai nostri cicli vitali: se lo ascoltassimo, sapremmo meglio vivere e meglio accettare l’inevitabile.
Lo scrittore serbo Danilo Kiš nel suo racconto intitolato Enciclopedia dei morti immagina un grande catalogo dove si annoverano tutti i morti sconosciuti dal 1789, le loro vite dimenticate, quei nomi che non faranno la Storia, ma sono la storia, quelle vite di cui non sapremmo mai nulla che però sono la loro ‘storia’ perché “ogni cosa umana è sacra”. Seguendo questo principio, divento più clemente e ritrovo una certa umanità anche nei concorrenti di una trasmissione che non vedrò mai. Riscopro anche il senso del mio rossetto che vuole urlare la vita, che, come un seme seppellito in autunno, risplenderà di bellezza rinascendo in primavera, quando questa deciderà di ritornare.