Quando si parla dell’avventura della estrazione dello zolfo in Sicilia, spesso non vengono presi in considerazione alcuni aspetti negativi che, invece, tennero “banco” in vivaci polemiche registratisi proprio nelle aree dove si allocavano le miniere. Si trattava della presa d’atto dell’inesorabile deteriorarsi dell’equilibrio ecologico che si andava determinando nelle zone minerarie.
Bisogna dire che, con notevole lungimiranza, il governo borbonico, già all’inizio delle campagne sistematiche di sfruttamento di quella risorsa di cui nell’Ottocento la Sicilia deteneva il monopolio, aveva prodotto una serie di editti regi che fissavano alcune regole di sfruttamento per limitare i presumibili danni. In particolare, il governo aveva disposto che fra le miniere ed i centri abitati ci dovesse essere una distanza minima di almeno due miglia e che le operazioni di fusione del materiale estratto, operazione necessaria per rendere fruibile il prodotto, fossero sospese durante il periodo dei lavori agricoli fra maggio ed agosto.
Il problema era che quegli editti, un po’ come le Grida spagnole dei “Promessi Sposi”, rimanevano in gran parte lettera morta. La responsabilità di queste mancanze era tutta a carico di una burocrazia ottusa e corrotta che troppe volte chiudeva gli occhi sugli abusi perché scambiava favori e otteneva prebende dai potenti locali. La situazione si era aggravata con l’aumento della richiesta del prezioso metalloide a cui corrispose da parte dei proprietari un accentuarsi dello sfruttamento selvaggio delle stesse miniere. Fu soprattutto “lo bruciamento degli zolfi” ad allarmare le popolazioni locali che consideravano gli effetti di quella pratica molto deleteri e atti a “ruinare le meliorie e sterilizzare il terreno coltivabile”.
I terreni infatti si inaridivano e i raccolti divenivano sempre meno copiosi, mentre le falde acquifere inquinate ammaloravano le acque delle sorgenti a cui attingevano le popolazioni. A queste contestazioni i proprietari rispondevano con relazioni ‘interessate’ nelle quali, invece, si sosteneva che, piuttosto di contaminazione negativa si dovesse parlare di contaminazione positiva “perché lungi dal nuocere farà le acque antisettiche purificando l’aere circostante dalle esalazione dei putridi ristagni”, veniva compromessa. Ma i fatti erano sotto gli occhi di tutti a cominciare da una sempre minore presenza nei campi delle api che, come è noto, assolvevano alla funzione di impollinazione. Per non parlare, poi, di quei miasmi che rendevano l’aria fetida e pericolosa.
Quei fumi venefici avevano, infatti, ripercussioni negative sulla salute degli uomini e degli animali Inducendo patologie respiratorie che, spesso, portavano alla morte. Insomma una situazione molto grave che comprometteva la già misera condizione di quella che i tedeschi chiamavano tiefste provinz, cioè provincia remota. E che i pericoli derivanti dalle effusioni nell’aria di quei fumi non fossero, come cercavano di accreditare i proprietari di miniere, esagerazioni, lo testimoniava una nota tecnica redatta da prof. Alfonso Giordano – un fisiopatologo di fama internazionale, cui si deve l’individuazione della theapneumocomiosi patologia tipica dei lavoratori delle miniere – nella quale l’illustre clinico mise in rilievo i danni che sull’ambiente e sull’uomo prodotti dalla pratica del “bruciamento”.
Non bastarono però le mobilitazione cittadine, né la buona volontà dei decurioni che nei borghi i cercarono di far applicare le leggi perché il potere e i soldi, che riescono a costruire mura invalicabili contro qualsiasi protesta, a cambiare le cose. Ogni battaglia fu destinata alla sconfitta. Scrive Nuccio Barone – storico che si è occupato del tema e che ha pubblicato un libro “Zolfo”, edizione Bonanno, titolo che non lascia dubbio sul tema trattato – “Il paesaggio costruito delle miniere altera profondamente il paesaggio naturale delle campagne e rende precari gli insediamenti abitativi dei paesi. L’industria zolfifera plasma le trasformazioni ambientali della Sicilia interna”.