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L’attentato a Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica, ferito a Palermo da un camorrista

venerdì 29 Marzo 2019

Come accadeva da quando aveva preso moglie, il tanto potente quanto odiato Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica, quella mattina del 27 novembre 1859 si avviava in Cattedrale a Palermo per partecipare alla Messa domenicale con la famiglia.

Mentre si apprestava a varcare la soglia dell’edificio sacro, dalla piccola folla che gli si accalcava attorno, si staccò un individuo che puntò diritto sull’alto funzionario borbonico e che, con uno di quei coltellacci che usava la malavita locale, gli inferse dei colpi al fianco provocandogli profonde ferite. Nel bailamme che seguì, l’attentatore poté dileguarsi sfuggendo così alla cattura.

L’attentato ebbe vasta risonanza anche per la rilevanza del personaggio Maniscalco, che aveva avuto il merito (o il demerito !) se non di frenare almeno di rallentare la deriva disastrosa del regime borbonico in Sicilia – minato da incapacità, da corruzione, da sopraffazioni e di connivenze con poteri oscuri (la mafia era già un soggetto presente e invadente) dei suoi rappresentanti – tanto che lo storico De Cesare arrivò ad affermare che “senza Maniscalco i Borbone avrebbero perduto la Sicilia appena dopo la morte di Ferdinando (II)”.

Per sua fortuna, ma anche per merito della scorta che l’accompagnava, i colpi inferti non furono tali da determinarne la morte, al punto che lo stesso ferito diresse le indagini per acciuffare l’attentatore. L’attentatore, diversamente da come forse ci si aspettava, non era uno dei tanti idealisti o degli esaltati dalla fede antiborbonica ma uno dei tanti camorristi che vivevano a Palermo e che si prestavano ad essere longa manus del potere baronale.

Si trattava di tale Vito Farina, inteso “Farinella”, che frequentava i palazzi aristocratici e che imponeva la sua protezione a piccoli artigiani e commercianti. Quell’attentato, di cui si cercarono subito i mandanti e i complici, visto che si ritenne poco credibile che il mafioso avesse agito in solitudine e senza una ragione valida, rendeva chiara l’immagine di una città in cui l’impero della legge vacillava ed in cui la criminalità veniva accettata come fatto ordinario. Maniscalco, che tutto questo aveva intuito, puntò subito in alto e ben presto le forze di polizia poterono individuare i possibili complici che, ed il fatto non deve meravigliare, erano tutti titolati, esponenti dell’alta aristocrazia siciliana a cominciare dal giovane principe Romualdo Trigona di Sant’Elia, lo stesso che nel 1862 si disse fosse stato il mandante della oscura vicenda dei “Pugnalatori” resa nota al grande pubblico dalla narrazione di Leonardo Sciascia.

Com’era prevedibile, viste le connivenze e le protezioni di cui godevano, i cosiddetti mandanti la fecero franca ma quell’attentato fu un campanello d’allarme che pochi raccolsero su ciò che stava accadendo a Palermo e in molte città della Sicilia occidentale. In quanto al Maniscalco, da uomo intelligente che era, comprese che per il Regno borbonico aveva i giorni contati ma non per questo, mostrando coraggio e fedeltà nei confronti del suo sovrano, abbandonò il campo, dopo avere infatti spedito fuori dall’isola la famiglia, rimase fino all’arrivo di Garibaldi a Palermo a contrastare, non solo i liberali ma, anche, e forse soprattutto malavitosi e mafiosi che da esperti voltagabbana erano passati dalla parte dei vincitori.

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