Questa puntata dei “Racconti brevi da leggere online”, presenta la terza parte del primo capitolo del libro “La vita appesa ai muri” di Caterina Guttadauro La Brasca Editoriale Programma Ed., Treviso, 2013.
Nonno Erasmo cresce il nipote Emanuele e lo indirizza verso una sana educazione e verso la cultura… Gli racconta della sua vita e della sua gioventù… Ma il destino della vecchiaia di Erasmo è segnato…
1° capitolo. 3^ parte. Nonno Erasmo.
«Questo vecchio saggio era riuscito a prendersi cura di suo nipote crescendo insieme a lui, quindi rispettando i tempi evolutivi di Emanuele, dandogli la sua fiducia e mantenendo sempre fede alle sue promesse. Questo dimostra che la saggezza e la semplicità, unite all’amore, sopperiscono egregiamente alla mancanza di cultura.
La cultura non è solo erudizione ma anche vita vissuta che lascia verità evidenti e, quindi, tramandabili. Erasmo diceva sempre che la mente insegna ma il cuore ama. Quando si sedevano a tavola, Emanuele aveva notato che la sua porzione di cibo era sempre maggiore di quella del nonno e, un giorno, gliene chiese il perché.
Si sentì rispondere: «Perché tu devi crescere, i vecchi non hanno bisogno di tanto cibo per vivere, tu devi diventare un uomo forte e grande e io sarò contento perché dentro di te c’è anche una piccola parte di me». Il ragazzo replicò: «Tu, non mi hai lasciato solo. Verrò in campagna con te, baderò alle bestie, imparerò a mungere il latte, così potrò fare il tuo lavoro quando sarai stanco e potrai riposarti».
«No, rispose Erasmo, tu devi continuare la scuola, imparare a leggere e a scrivere; non dovrai, come ho fatto io, chiedere a qualcuno di leggerti le lettere, firmarti con una x perché non sai scrivere il tuo nome. Io non ho mai potuto leggere un libro, un giornale, una lettera. Tante volte per questo motivo, mi sono sentito un uomo a metà, senza identità, poi sei arrivato tu e mi sei sembrato la ricompensa per tutto quello che non avevo mai avuto. Con te ho ritrovato il calore di una famiglia che non avevo più da quando era morta la nonna e Gloria mi aveva abbandonato.
Ad allontanarci sono state tante cose non dette. Io ho amato e amo molto tua madre ma, maledetto me, non gliel’ho mai saputo dire e lei sta ripetendo il mio stesso errore con te. Ricorda Emanuele: le cose da dire hanno un loro tempo in cui vanno dette, perché passato quel tempo, dirle potrebbe non avere più senso. Molte volte ho sbagliato per ignoranza. Sono sempre stato sotto padrone, non ricordo nemmeno da quando, ho sempre avuto a che fare con la terra, con il letame e le bestie, non ho mai saputo usare le parole perché nessuno me l’ha insegnato».
Il ragazzo lo ascoltava con attenzione e chiese: «Ma nonno non avevi dei desideri, non chiedevi, non pregavi perché fossero esauditi?»
Erasmo rispose: «Io ho sempre accettato tutto quello che mi è stato detto e dato, talvolta anche soltanto un piatto di minestra per tutta una giornata di lavoro oppure dormire sulla paglia, accanto agli animali che, con il loro calore e la loro compagnia, mi facevano sentire meno solo. Non so neanche pregare, nessuno mi ha insegnato come si parla con il buon Dio, così gli parlo alla mia maniera, sperando che Lui non si offenda. So che esiste perché chi può aver creato il cielo, la terra, il mare, chi ha creato il primo uomo e la prima donna? Da vecchi non ci si chiede più niente, perché trovare la risposta a certe domande è faticoso. Fai tesoro delle cose che hai vissuto e comprendi il valore delle piccole cose che, da giovane, non ti bastano mai.
Quello che penso e che mi fa paura è la consapevolezza che dovrò lasciarti solo. Dovrai essere forte, ricorda che non sarò io a scegliere di lasciarti ma sarà la vita ad abbandonarmi, come accade per tutti».
Emanuele disse: «Mia madre però ci ha abbandonato, perché lei da qualche parte vive e non si cura di noi».
Erasmo rispose: «Vedi, Emanuele, ci sono comportamenti difficili da spiegare e da capire, soprattutto quando si è ragazzi. Un giorno spero che sia lei stessa a darti una ragione per quello che ha fatto. Ci sarà un momento, se addirittura non c’è già stato, in cui si renderà conto di avere sbagliato e il dolore che proverà sarà tanto forte che sentirà il bisogno di chiedere perdono».
«Sì, riprese il ragazzo, ma un figlio è carne della tua carne, come si può abbandonare?»
Erasmo rispose: «Hai ragione, ma un figlio si concepisce e si cresce in due. Se un genitore è solo, il futuro spaventa e l’oggetto d’amore può diventare un ricordo amaro di persone e situazioni che si vogliono dimenticare. Non giudicarla, Emanuele, perché farlo spetta solo a Dio. Tu sei suo figlio e, quando la incontrerai, ascolta le sue ragioni e la sua buona fede, perché penso che vivere senza di te sia già stato un castigo per lei. Forse non riuscirai a dimenticare, ma non impedire al tuo cuore di perdonare. Lei, comunque, ha scelto te sulla paura, avrebbe potuto non farti venire al mondo ma ha capito che il prezzo da pagare sarebbe stato più grande di quello di non poterti stare accanto».
Passava il tempo e le spalle di Erasmo diventavano sempre più curve e il suo passo sempre più lento. Il tempo passava inesorabilmente e seppelliva pezzi di vita in angoli di cuore, dove mettevano radici che il vento delle emozioni e dei sentimenti avrebbe scosso ma mai estirpate. Ormai Emanuele era diventato un bel giovane e la famiglia Lumia sembrava avere un uomo in più. Sicuramente, crescendo, si portava dentro tante domande, tanti dubbi che non confessava a nessuno, anche se aveva una sua identità, grazie alla famiglia che lo aveva quasi adottato e a suo nonno. Tante volte, Emma e Margherita si erano chieste se Emanuele avrebbe avuto difficoltà ad approcciare le donne e a gestire il rapporto con loro, dato che la figura fondamentale della mamma era mancata nella sua vita. Si chiedevano perché Gloria avesse lasciato passare tanti anni senza farsi viva, senza capire che certi amori malati, sbagliati possono ancora ricucirsi se si ha l’umiltà di cercare dentro e fuori di noi la verità e il motivo per cui li abbiamo persi.
Le sorelle Lumia sapevano, comunque, per esperienza, che la vita prima o poi avrebbe pareggiato i conti perché questo succede, abbattendo o innalzando muri che sarebbero stati definitivi. In casa Lumia lavoravano molte persone e alle orecchie di Emma e Margherita era arrivata voce che Giovanni, da anni ormai sposato, guardava con grande attenzione Emanuele quando lo incontrava. Dio non aveva benedetto la sua unione con il dono di un figlio, ma lui sapeva che un figlio lo aveva, bello, intelligente e molto ammirato dalle ragazze. L’uomo che tanti anni prima lo aveva disconosciuto ora ne andava fiero e soffriva per non poterlo gridare a tutti.
Un giorno, mentre Emanuele tornava a casa da scuola, Giovanni lo affiancò e gli propose di lavorare per lui. Il ragazzo rifiutò dicendo che il suo lavoro, al momento, era quello di studiare. Salutò e raggiunse i suoi compagni che erano andati avanti. Un giorno, mentre Emma e Margherita erano in cucina, videro arrivare Emanuele con un viso molto serioso, quasi preoccupato. Preoccupate, lasciarono tutto e si posero ad ascoltare con tutta la loro attenzione quello che Emanuele disse: «Vi prego di scusarmi se a ogni problema che ho vi vengo a cercare, ma voi siete stati con il nonno la mia famiglia e non mi fido di nessuno come di voi. Sono preoccupato perché, a mio parere, il nonno ha bisogno di aiuto. Da un po’ di tempo noto che i suoi movimenti sono imprecisi, che fa fatica a mettere a fuoco le cose, talvolta, muovendosi, urta i mobili col rischio di cadere e farsi veramente male. Non ho provato a chiedere a lui, perché so che per non preoccuparmi, non mi avrebbe detto la verità. Chiedeteglielo voi, ditegli che si faccia aiutare, per me la sua vita è preziosa, al punto che non riesco a concepire la mia esistenza senza la sua».
Margherita e Emma sapevano bene che non si muore quando perdiamo le persone care ma si sopravvive con fatica e con dolore, fino a quando il tempo risana le ferite. Per Emanuele perdere Erasmo avrebbe significato perdere tutta la sua famiglia, non aveva memoria di altri volti, di altre figure, è la fisicità che la memoria incamera per poi trasmetterla ai nostri occhi, quando il cuore ne sente la mancanza. Emma rassicurò Emanuele, promettendogli che avrebbe parlato a Erasmo. Nessuno più di Emma sapeva quanto Erasmo fosse semplice e complicato allo stesso tempo, non era facile a confidarsi e non voleva mai impensierire nessuno.
Bisognava metterlo di fronte a una situazione che provasse la sua difficoltà in maniera così evidente da non potere essere smentita. Così, la sera successiva, Emma, vedendolo arrivare dalla campagna, si affacciò al balcone e gli disse che, dopo aver scaricato i muli, la raggiungesse al primo piano, salendo per la scala interna, con attenzione perché c’era poca luce. Come Emma si aspettava, Erasmo ubbidì alla lettera, inciampò e cadde.
Margherita ed Emma corsero immediatamente, con un grande senso di colpa per aver causato l’incidente e messo a repentaglio la sua incolumità. Emma, dopo averlo aiutato a rialzarsi ed essersi sincerata che non fosse accaduto niente di grave, cingendogli affettuosamente le spalle con un braccio, lo condusse in cucina, dove gli fece bere un bicchierino di rosolio per tirarlo su.
Erasmo la ringraziò, rassicurandola che stava bene e chiedendole scusa per essere stato così maldestro, ma gli anni erano tanti e i suoi passi meno sicuri di una volta. Emma lo fece sedere e, messasi di fronte a lui, gli parlò come sempre con un tono sommesso, come fosse un bambino, perché questo lui era nell’anima: un bambino buono e rispettoso degli altri più di se stesso.
«Erasmo è da un po’ di tempo che le volevo parlare e quello che è appena successo me ne dà il motivo. Quando si diventa anziani, le forze vengono meno, non si possono affrontare il lavoro e la vita con la stessa energia di quando si era giovani. Ammettere la propria fragilità non è un atto di debolezza e nemmeno mancanza di rispetto se non si riesce a dare il meglio di se stessi. Mi chiedo se non sia più conveniente che lei faccia lavori meno gravosi e con l’aiuto di qualcuno. È una vita che lavora per noi, nessuno più di me sa con quanta obbedienza e rispetto ci ha servito, quindi se oggi c’è qualche problema è giusto che siamo noi ad aiutarla».
Erasmo ascoltò il discorso di Emma come faceva sempre a testa bassa. Tenendo il berretto tra le mani e stropicciandolo, tradiva il suo nervosismo. Era titubante perché, da sempre, parlare di se stesso lo imbarazzava, ma la sincerità per lui era un dovere e, quindi, rispose: «Vede signorina Emma, è da un po’ di tempo che inciampo più facilmente di una volta, ma lei lo ha appena detto: sono gli anni che mi porto addosso che rendono imprecisi i miei movimenti. Talvolta mi si appannano gli occhi, ma conosco i posti e le strade come le mie tasche e non ho problemi, prima o poi arrivo. La prego, non mi riduca il lavoro, io dovrei lavorare per due e sarebbe sempre poco per ringraziarvi di quanto avete fatto per me e mio nipote in tutti questi anni. Anzi, la prego, signorina, non dica niente di tutto questo a Emanuele, si preoccuperebbe e io non voglio».
Emma lo rassicurò e gli disse che, a una certa età, era necessario fare delle visite di controllo, soprattutto lui che non era mai andato da un dottore. La sua medicina era stata il lavoro all’aria aperta, la sua pagnotta e il suo pezzo di cacio, accompagnati sempre da un buon bicchiere di vino rosso. Qualche volta aveva avuto, per un’infreddatura, un febbrone da cavallo che, con una buona sudata, era rapidamente sparito. Una mattina, come promesso, Erasmo indossò il suo vestito buono, sempre lo stesso che sua moglie gli aveva allargato per poterlo usare nelle occasioni come quella.
La scusa ufficiale fu che Emma doveva andare in città per delle compere e le necessitava l’aiuto per caricare e scaricare la macchina. A visitare Erasmo fu uno specialista che i Lumia conoscevano da anni e che fece il suo lavoro con garbo e attenzione, avendo immediatamente capito di avere dinanzi a sé un uomo per il quale la medicina era al massimo una purga o uno sciroppo, presi sempre con sospetto. Mentre Erasmo si rivestiva, Emma parlò con il professore. Questi le disse che le condizioni generali di Erasmo erano buone, quantomeno, compatibili con l’età, ma il problema erano gli occhi, colpiti da una malattia degenerativa che non era curabile.
In breve, Erasmo sarebbe diventato cieco. Durante il viaggio di ritorno, in macchina c’era un gran silenzio, fitto come certe nebbie che, con un modo di dire, si tagliano a fette. Emma aveva la mente in subbuglio ma una sola certezza: non poteva e non voleva rivelare la diagnosi a Erasmo. Lei era arrabbiata con la Divina Provvidenza che, nella vita di quel povero uomo, era sempre stata latitante. Sapeva che, come in tutta la sua vita, Erasmo, se avesse saputo, avrebbe accettato quella sentenza con rassegnazione e gratitudine verso Dio, non per quello che gli avrebbe tolto ma per quanto gli aveva donato.
Emma non avrebbe sopportato questa sua infinita pazienza che non lo faceva mai arrabbiare, che di ogni cosa gli faceva notare il lato migliore, il non sentirsi mai vittima degli eventi ma fortunato per aver vissuto tanto e con un buon lavoro. Forse, pensava Emma, Erasmo piangeva la notte, quando non lo vedeva nessuno, perché gli avevano insegnato che i sentimenti devono rimanere nascosti dentro di noi e lui così aveva sempre fatto. Non era mai nemmeno riuscito a dire a sua moglie e a sua figlia quanto le amava.
Con Emanuele quella corazza si era ammorbidita e aveva così scoperto quanto fosse liberatorio poter dire un «Ti voglio bene», far capire a una persona quanto fosse importante nella propria vita. Margherita e Emma ritennero giusto parlare con Emanuele, che adesso era adulto e in grado di comprendere che la vita è fatta di ostacoli, talvolta, come in questo caso, insuperabili. Lo chiamarono e, con l’affetto che nutrivano per lui, cercarono le parole più giuste per fargli comprendere che il nonno, entro breve tempo, sarebbe piombato nel buio e che non c’era modo per evitarlo. Emanuele ascoltò in silenzio, cercò una sedia per sedersi come se il suo giovane corpo non potesse reggere il peso di quella notizia, rimase un po’ a capo chino come faceva suo nonno e quando rispose, non tentò neppure di nascondere le lacrime e con una rabbia incontrollata rispose: «Perché proprio a lui?»
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