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Agrigento, febbraio 1987, palazzo della Provincia. Vado a intervistare Andrea Camilleri per Teleacras senza sapere che faccia avesse, conoscendolo di nome – più che di fama – solo per aver visto in città qualche anno prima l’adattamento teatrale di “Un filo di fumo”.
Mi ci manda con Antonio Quagliata il direttore Giovanni Taglialavoro, protagonista degli “anni d’oro” dell’emittente agrigentina e oggi autore Rai a UnoMattina; in studio Luigi Galluzzo, ora redattore di Studio Aperto a Italia1 e all’epoca conduttore del settimanale Reportage, e Angelo Incorvaia, regista e “anima tecnica” di Teleacras.
Immerso in una nuvola di fumo per i dieci minuti dell’intervista, Andrea Camilleri s’impadronisce garbatamente del microfono sin dalla prima domanda – facendomi poi meritare un rimprovero dal direttore – e da consumato regista decide tempi e ritmi dell’intervista.
Non chiede di conoscere prima le domande o la scaletta: si recita a soggetto.
Si parla di televisione, di mafia e di fatti di sangue vissuti in prima persona, della sua Porto Empedocle, della Sicilia di ieri e di quella di domani (cioè, di oggi).
“La Sicilia è una terra troppo antica per potere avere cambiamenti visibili e istantanei, ma sta cambiando: cresce la coscienza di essere siciliani e, per la prima volta, l’orgoglio di esserlo”, profetizza Camilleri.
Si parla anche di Teatro, che è stato la sua vita prima che venisse “investito”- appena pochi anni dopo questa intervista – dal grande successo internazionale di scrittore.
“Il teatro in Grecia nacque perché c’era la schiavitù, anche oggi deve partire dal basso: quelli che danno i soldi non hanno interesse che si faccia buon teatro, perché è sempre contro il potere”.
Il suo pensiero torna alla Sicilia. “Quando ero giovane io, un meridionale non poteva far altro che scappare”.
Maestro, ha rimpianti per aver lasciato la Sicilia? “Sempre, non c’è Patria che possa sostituirla”.
Ma la Sicilia, in realtà, Andrea Camilleri l’ha portata sempre con sé.