L’elezione di Gianfranco Miccichè a presidente dell’Assemblea regionale siciliana, ha suscitato una scia di polemiche e scambi di accuse, non già tra le file della maggioranza di centro destra che complessivamente ha dato prova di compattezza ma, incredibile a dirsi, all’interno dell’opposizione e specificatamente nel Partito Democratico.
Scontri e polemiche suscitate dal risultato riportato da Miccichè, cui si sono aggiunti i voti di quattro deputati del PD, oltre a quelli di Sicilia Futura che, in verità, già nella votazione precedente e pubblicamente avevano dichiarato di votare per il candidato proposta dal centro destra.
Chi ha gridato allo scandalo, chi all’inciucio e perfino che i voti dei quattro “traditori” fossero stati sollecitati dal gruppo dirigente nazionale del PD.
Tutte le critiche sono legittime, ma se si rinuncia per un momento alla dietrologia, al cannibalismo interno, al complottismo, di cui è affetta la politica siciliana e nazionale, cerchiamo di capire dal punto di vista politico ciò che è successo e di analizzarlo alla luce delle prospettive politiche di questa nuova legislatura.
Non pare che vi possa essere niente di scandaloso se per l’elezione della massima carica istituzionale anche l’opposizione voti il candidato della maggioranza, affermando una separazione tra il livello istituzionale e quello esecutivo, senza che questo possa significare trasformismo o contrattazione di potere.
Nella Prima Repubblica l’opposizione comunista votava per il candidato della maggioranza, quasi sempre per il presidente della Repubblica e la maggioranza, in particolare la Democrazia Cristiana, votava ed eleggeva un rappresentante dell’opposizione.
Fu così che nel 1976 all’Assemblea regionale fu eletto uno dei più autorevoli e rappresentativi dirigenti del PCI, l’onorevole Pancrazio De Pasquale, cui seguì la presidenza di un altro altrettanto prestigioso parlamentare comunista, come Michelangelo Russo. Alla Camera dei deputati la DC votò ed elesse prima Pietro Ingrao e poi Nilde Jotti, tutte presidenze che furono un modello di linearità, trasparenza, imparzialità e competenza apprezzate universalmente.
Furono chiaramente espressione di un determinato clima e contesto politico che spingeva al confronto, ma affermava anche un metodo che tendeva ad affermare l’autonomia del parlamento dal governo senza per questo contrapporsi.
Il metodo fu successivamente archiviato con la fine della Prima Repubblica e l’avvento della Seconda, caratterizzata da Silvio Berlusconi che nei fatti, senza alcuna modifica costituzionale, sancì il primato dell’Esecutivo sul Parlamento.
Lo spirito del sistema maggioritario, apprezzato dagli italiani, animava le campagne elettorali e prevedeva l’alternanza tra i due schieramenti che si contrapponevano, con la conseguente adozione dello spoil system sul modello della democrazia americana.
Anche questo modello è entrato in crisi con la nascita di un nuovo movimento politico, quello dei Cinque Stelle che hanno determinato la fine del bipolarismo, anche formalmente, con la bocciatura del Referendum costituzionale proposto dal PD di Matteo Renzi.
Sono stati i Grillini, i veri vincitori di quello scontro trovando perfino sostegno nel centro destra e pezzi del Pd, interessati più alla sconfitta di Renzi che al merito della riforma e che hanno portato a sfornare una legge elettorale che di fatto ripristina il sistema proporzionale a livello nazionale, mentre rimane il maggioritario livello delle Regioni e dei Comuni.
E’, infatti, l’introduzione dell’elezione diretta del presidente della Regione che in Sicilia pone fine all’intesa concordata tra tutte le forze politiche del presidente e degli organi di governo del parlamento regionale.
E così l’elezione del presidente dell’Ars si presta a occasione di scontro politico, condizionata dagli equilibri interni tra le correnti e dalle diverse prospettive politiche che li dividono.
All’interno del Pd vi sono i fautori di un accordo con i Cinque Stelle per rafforzare il fronte dell’opposizione al centro destra e impedirgli di governare o di non legiferare.
Altri invece puntano a stabilire, pur nel rispetto del proprio ruolo di opposizione, un dialogo con il centro destra per contribuire sul piano legislativo all’elaborazione e all’approvazione di alcune leggi importanti per la Sicilia che portano anche il segno e l’apporto del centro sinistra.
Due posizioni politiche riprospettabili che però stentano ad assumere dignità politica, dal momento che tutto viene subordinato allo scontro interno. E così non si capisce perché sia inciucio il dialogo con il centrodestra e non sia allo stesso modo una forma d’inciucio il rapporto con i Grillini, tranne che il Pd, o parte di esso, non voglia seguire la linea di D’Alema e Bersani che puntano addirittura a una collaborazione di governo con il movimento dei Cinque Stelle, cioè con un’altra espressione della destra italiana, con tutto il rispetto per una forza politica che riscuote un notevole consenso.
La responsabilità in Sicilia di questo caos, di questa confusione, che ancora una volta crea sbandamento nell’elettorato di centro sinistra, ricade ancora una volta sul PD, sul suo gruppo dirigente, a tutti i livelli, non nel singolo dirigente, ma in tutte le sue espressioni politiche e istituzionali. Una situazione che, se non fossero imminenti le elezioni nazionali, richiederebbe un congresso straordinario, alla luce anche della sconfitta elettorale, con l’auspicio che si ponesse fine a questa fragilità politica che caratterizza il PD siciliano che non riesce ad assumersi responsabilità e indicare scelte comprensibili prima ancora che condivisibili.
Se una critica seria va fatta ai quattro deputati che hanno scelto di votare Miccichè è di non avere reso pubblica questa decisione argomentandola e sostenendola, come hanno fato i deputati di Sicilia Futura che alla luce del sole hanno fatto una “scelta di natura istituzionale” come dichiarato dal segretario regionale Nicola D’Agostino.
Una forza riformista e progressista come il PD non può confondersi, infatti, con forze politiche come i Cinque Stelle che puntano al tanto peggio tanto meglio perché su questo costruiscono la loro fortuna elettorale.
Anche dall’opposizione seria e rigorosa al centrodestra si deve sempre dare prova di cultura di governo e di senso delle istituzioni.
Rimane valida la strategia dei due tavoli, quello istituzionale separato da quello del governo, in quanto le istituzioni appartengono a tutti e tutte le forze politiche devono farsi carico della loro funzione. Le opposizioni trovano così il loro spazio parlamentare per portare avanti a livello legislativo idee e proposte per dare dall’opposizione, senza confusione di ruoli con la maggioranza di governo, il proprio contributo fecondo alla soluzione dei problemi dei siciliani e riacquistare la credibilità necessaria per ricandidarsi alla guida della regione alle prossime elezioni.