In Sicilia, ogni anno, centinaia di donne subiscono violenza. Secondo i dati del Viminale aggiornati al 2024, sono state oltre 3.000 le denunce per maltrattamenti in famiglia registrate sull’Isola, una media di oltre 8 al giorno. Ma dietro questi numeri si nasconde un dato ancora più allarmante: la maggior parte delle violenze non viene mai denunciata. Troppe donne restano in silenzio, prigioniere della paura, dell’isolamento, della vergogna.
E intanto, si continua a morire. Solo tra il 2023 e il 2024, almeno 10 femminicidi hanno insanguinato la cronaca siciliana. Donne uccise da uomini che dicevano di amarle. Donne che avevano chiesto aiuto, spesso invano.
“La violenza contro le donne non è un’emergenza. È una costante tragica, figlia di una cultura del possesso, di un’educazione affettiva assente, e di un sistema che troppo spesso arriva tardi. Non possiamo affrontare questo fenomeno con risposte semplici o slogan. Servono strumenti culturali, educativi, clinici e giudiziari. Serve una visione complessa e integrata”. Ad evidenziarlo è Enza Zarcone, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Sicilia.
Il mito del profilo psicologico unico
“Proprio perché ci troviamo davanti a un fenomeno complesso, non possiamo illuderci che esista un solo profilo psicologico del femminicida. – sottolinea -. Non è scientificamente corretto. Si tratta, piuttosto, di una popolazione eterogenea, all’interno della quale possono coesistere tratti narcisistici, dipendenti, antisociali, vulnerabilità psichiche, storie di attaccamento disfunzionali, uso di sostanze o isolamento sociale. Ridurre tutto a una semplice diagnosi psichiatrica, però, è fuorviante e pericoloso. Il rischio è quello di trasformare un reato in una patologia, minimizzando la componente intenzionale e responsabile della violenza. In questi casi entrano certamente in gioco fattori culturali, come una visione maschilista e patriarcale dei rapporti, ma anche, talvolta, aspetti psicopatologici o tratti antisociali di personalità. Tuttavia, è essenziale chiarire che né la cultura maschilista né eventuali disturbi psichici sono di per sé cause sufficienti. Non tutte le persone che condividono questi fattori diventano violente. La violenza è, prima di tutto, una scelta. Un atto deliberato che va riconosciuto, prevenuto e affrontato come tale, con strumenti adeguati a livello individuale, sociale e culturale”.
La responsabilità degli autori
“Uno degli aspetti ancora troppo sottovalutati è il trattamento degli autori di violenza. Eppure, è proprio lì che si gioca una parte fondamentale della prevenzione futura. Il lavoro con gli autori di reato è essenziale – spiega –. In Sicilia esistono centri specializzati che operano con efficacia in questo ambito. Aiutare queste persone a riconoscere la propria responsabilità, a ristrutturare convinzioni rigide e schemi disfunzionali non è utile solo per loro, ma ha un impatto diretto anche sul percorso di guarigione delle vittime. Quando l’autore del reato ammette la responsabilità e affronta un percorso di consapevolezza, la vittima può iniziare a elaborare il trauma con maggiori strumenti. Al contrario, l’indifferenza, la negazione o la tendenza a minimizzare lasciano ferite aperte. Intervenire sugli autori di violenza significa abbracciare il fenomeno nella sua complessità. E noi psicologi siamo formati proprio per questo: abbiamo le competenze, gli strumenti e l’esperienza per lavorare su più livelli, con l’obiettivo di prevenire, curare e trasformare”.
La prevenzione: più di uno slogan
“Parliamo spesso di prevenzione, ma nella pratica cosa significa fare prevenzione psicologica della violenza di genere? Significa promuovere competenze relazionali, affettive, emotive – puntualizza -. Educare alla parità, al rispetto, al riconoscimento dell’altro come soggetto autonomo. Questo non si improvvisa: si costruisce nel tempo. Il primo luogo in cui intervenire sono le scuole, ma non solo. È fondamentale intervenire in età precoce, ma anche rafforzare il ruolo dei servizi territoriali e delle famiglie, che sono agenti educativi a tutti gli effetti”.
Nello specifico:
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prevenzione primaria: percorsi di educazione socio-affettiva, per promuovere relazioni sane già nell’infanzia;
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prevenzione secondaria: individuazione precoce dei segnali di disagio (cambiamenti emotivi, isolamento, reazioni aggressive o sottomesse);
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prevenzione terziaria: trattamento psicologico dei soggetti coinvolti, sia vittime che autori di violenza, per interrompere la spirale.
“È un lavoro che richiede una rete – aggiunge –. Nessun ambito può essere escluso: scuola, famiglia, servizi, istituzioni, media. Tutti devono fare la propria parte. In Spagna, nel 2004, è stata introdotta una legge organica sulla violenza di genere che rappresenta un esempio concreto di volontà politica. Lì hanno creato un sistema integrato: educazione nelle scuole, protezione immediata per le vittime, centri di intervento per gli autori, tribunali specializzati”.
La legge spagnola (2004) riconosce esplicitamente la violenza maschile sulle donne come fenomeno strutturale e sistemico. Include:
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Tribunali speciali per la violenza di genere;
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formazione obbligatoria per giudici e forze dell’ordine;
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protezione immediata per le vittime;
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educazione obbligatoria alla parità nelle scuole.
In Italia, invece, la legge 119/2013 ha rappresentato un passo avanti – con l’introduzione di misure cautelari più rapide e l’aggravamento delle pene – ma l’approccio resta frammentato, privo di una visione sistemica.
“Manca una cultura politica che metta realmente al centro la prevenzione. Non bastano gli interventi repressivi. Serve costruire una società che riconosca la parità come valore e la violenza come responsabilità individuale e collettiva”.
Le parole non sono neutre
Ma la prevenzione non è fatta solo di strumenti educativi o normativi, anche il modo in cui comunichiamo conta.
“Nella prevenzione è fondamentale anche la corretta comunicazione pubblica, che ha un impatto enorme sulla percezione del fenomeno – spiega -. I media devono evitare la spettacolarizzazione della violenza e il ricorso a un linguaggio che minimizza o distorce la realtà. Espressioni come “follia d’amore” o “raptus passionale” rischiano di giustificare o minimizzare il reato, spostando l’attenzione dall’autore alla vittima. È un errore grave che non possiamo permetterci. Per questo è fondamentale collaborare con i media, affinché veicolino messaggi corretti, evitino il rischio dell’emulazione e contribuiscano a un’informazione seria, mai spettacolarizzata né minimizzante”.
“In questo senso, è importante anche utilizzare il termine corretto: femminicidio – prosegue -. Spesso criticata o messa in discussione, questa parola è invece assolutamente legittima. C’è una differenza sostanziale tra l’uccisione di una donna in un contesto generico – come una rapina o un incidente – e l’uccisione di una donna per mano di un uomo all’interno di una relazione affettiva o familiare”.
Credere alle vittime, sempre
“Ancora oggi, manca un vero supporto alle vittime, che invece dovrebbe rappresentare sempre il primo passo. Il supporto è fondamentale: le donne devono essere credute, ascoltate, comprese e protette, non solo quando subiscono violenza fisica, ma anche in presenza di stalking, violenza psicologica o economica – aggiunge –.Sono tutte forme gravi, che possono evolvere in episodi ancora più drammatici. Ma non basta offrire ascolto. Servono misure concrete: protezione, sostegno economico, accompagnamento psicologico. E soprattutto, è urgente smettere di colpevolizzare le vittime o di etichettarle come fragili, instabili o disturbate. Le vittime vanno sostenute, non giudicate. Affrontare davvero il fenomeno significa analizzare l’intero contesto che conduce alla violenza: dinamiche relazionali, condizioni sociali, fattori economici e culturali. Dobbiamo sostenere le donne su tutti questi piani, senza stigmatizzarle. E invece, troppo spesso, ancora oggi accade che vengano screditate o patologizzate. È un’ulteriore forma di violenza che dobbiamo imparare a riconoscere e contrastare. Ma per sostenere davvero le vittime, non basta l’empatia: serve una società intera che si assuma la responsabilità del cambiamento”.
Una responsabilità collettiva
“Ogni donna uccisa per mano di un uomo non è una tragedia privata: è una sconfitta pubblica. E ognuno di noi, che sia cittadino, professionista o rappresentante delle istituzioni, è chiamato a scegliere da che parte stare. Possiamo restare a guardare oppure assumerci la responsabilità di agire. Affrontare la violenza significa riconoscerne la complessità, comprenderne le radici e intervenire su più livelli. Noi psicologi, in quanto professionisti della complessità umana, abbiamo strumenti unici per leggere, prevenire e trasformare queste dinamiche: lavoriamo sull’educazione affettiva, sull’elaborazione del trauma, sull’assunzione di responsabilità da parte degli autori, sulla ricostruzione dell’identità delle vittime – conclude -. La violenza non è una fatalità, è una scelta. E come tale può e deve essere prevenuta. Ma serve uno sforzo collettivo, lucido e costante. Cambiare è possibile, ma solo se decidiamo di farlo, insieme”.