Gioacchino Ventura si pronunciò contro il sostegno acritico del cattolicesimo alle monarchie ed espresse un forte auspicio per una netta separazione tra trono ed altare, nonché per il rifiuto dell’uso della religione come instrumentum regni.
Quando scoppiò la rivoluzione a Roma e Pio IX abbandonò la città per riparare a Gaeta, Ventura restò a Roma: ebbe contatti con Garibaldi e Mazzini e, unico diplomatico, presenziò alle funzioni in Vaticano per la Pasqua del 1849, come rappresentante del governo siciliano.
Ventura si dichiarò nettamente a favore della separazione del potere spirituale da quello temporale. Fu favorevole al ritorno del Papa a Roma, ma “come Pontefice e Vescovo, come sovrano temporale, non mai”.
Dopo la restaurazione avvenuta a Palermo e a Roma, Ventura comprese che la sua posizione in Italia era irreparabilmente compromessa. Accettò umilmente il decreto della messa all’Indice di parecchie sue pubblicazioni e lasciò l’Italia per recarsi in Francia, dove suscitò l’imbarazzo dell’arcivescovo di Parigi che, perplesso, chiese al Vaticano se dovesse considerarlo scomunicato o interdetto.
A Parigi ritornò a scrivere. Ricordiamo «Il potere politico cristiano» (1858) e il «Saggio sul potere pubblico» (1859) ove riprese i temi già sostenuti del legame tra democrazia e cattolicesimo. Ebbe una momentanea involuzione quando espresse un giudizio possibilista in merito alla presa di possesso di Napoleone III (il Ventura fu predicatore della cappella imperiale, alla corte di Napoleone III), ma, dopo, continuò ad esporre con fermezza le sue idee liberali. Il potere, pur se di natura divina, deve essere esercitato attraverso il popolo.
La sovranità, cioè, era conferita da Dio alla comunità politica (e non al sovrano) e da questa passava al governante che l’attingeva dalla comunità politica stessa. Il potere del governante, quindi, può essere revocato in caso di tirranide. E così che il popolo siciliano, depositario della sovranità, aveva avuto il diritto di revocare il potere del re che aveva prevaricato nei confronti dei siciliani.
Il Ventura condannava anche il centralismo perché con esso si dava allo Stato eccessivo potere sulla società, ai vari livelli sociali e civili. Fu una personalità complessa quella del Ventura, ma non venne mai meno alla sua convinzione di poter conciliare fede cattolica e idee liberali.
Luigi Sturzo, all’avvento del fascismo, lo annoverò, per la sua dottrina e l’azione politica svolta, assieme a Gioberti e a Rosmini, come precursore del partito popolare. Successivamente egli espresse un giudizio ancora più lusinghiero, autodefinendosi “siciliano autonomista e antiborbonico alla Gioacchino Ventura“.