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Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alexandra Wolff: l’amore al tempo dei Gattopardi

domenica 8 Settembre 2019
Giuseppe Tomasi-di-Lampedusa

Quella tra Alexandra Wolff Stomersee e Giuseppe Tomasi di Lampedusa è un’appassionante storia d’amore che, intrecciando letteratura, psicoanalisi e cinema, merita di essere raccontata.

Giuseppe Tomasi-di-Lampedusa

L’autore de “Il Gattopardo“, nato a Palermo il 23 dicembre del 1896, figlio di Giulio Maria Tomasi e Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, era duca di Palma e Montechiaro e principe di Lampedusa; Licy, il nomignolo con cui era chiamata Alexandra, nata a Nizza il 13 novembre del 1894, era una aristocratica baltica, figlia della cantante lirica italiana Alice Barbi e del barone Boris Wolff Stomersee, allieva di Sigmund Freud e apprezzata analista.

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La coppia, che sarà protagonista del raffinato e fervido periodo culturale della Palermo della Belle Epoque, era circondata da figure di grande spessore culturale tra cui Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di primo grado di Giuseppe Tomasi, essendo le madri, Teresa e Beatrice, sorelle. Villa Vina, la Villa Piccolo a Capo d’Orlando, dove i fratelli Casimiro, Agata Giovanna e Lucio, si erano ritirati a vivere con la madre, abbandonando Palermo, era luogo d’ispirazione per lo scrittore che aveva una stanza che, ancora oggi, è possibile visitare grazie alla Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella che “custodisce”, con amore e dedizione, questa dimora storica.

Alexandra Wolff

Alexandra, charmante e autorevole, dotata di grande carisma e punto di riferimento per la comunità scientifica, ebbe il grande merito di far approdare in Sicilia il pensiero di Freud, divenendo la prima donna “Presidente della Società Psicoanalitica Italiana”. Si narra che la nascita di quel capolavoro senza tempo che è “Il Gattopardo” e di quella frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“, pronunciata non dal principe di Salina, ma dal nipote Tancredi, fosse stata perorata e incoraggiata proprio dalle sue parole: “Io e mio marito stavamo seduti sulla panchina a guardare la luna, lui era triste, inquieto, non riusciva ad abituarsi al nuovo palazzo (…). Gli dissi che la luna è uguale in ogni posto, è luce nella fantasia e nell’immaginario e gli chiesi: perché non ti eserciti a immaginare la vita che ha vissuto il palazzo, com’era, cosa succedeva? Scrivi e tutto vivrà come prima”.

Proprio da quella osservazione, che dava una visione “altra”, forse, ebbe inizio tutto: il successo mondiale del libro e del film con la regia di Luchino Visconti. A tal proposito vi consigliamo di vedere, se non lo aveste ancora fatto, lo splendido “Manoscritto del Principe” di Roberto Andò che, avendo per palcoscenico la Palermo colta e, ancora felicissima, di quegli anni, vede stagliarsi il bel personaggio di Licy Wolff, interpretata da una straordinaria Jeanne Moreau, e quello del poeta Lucio Piccolo, un cameo straordinario di Leopoldo Trieste.

Tomasi-di-Lampedusa-e-Alessandra-Wolff

Ma dove si conobbero Giuseppe e Alexandra?
L’incontro avvenne a Londra in casa dello zio Pietro Tomasi della Torretta, secondo marito della madre di lei, in un tempo in cui Licy era ancora legata al barone André Pilar. In quell’occasione, già uniti da affinità elettive, fecero una breve passeggiata, parlando di Shakespeare, che la giovane donna conosceva a menadito. Nel 1927 il Gattopardo fu ospite al castello di Stomersee, in Lettonia, essendo amico di entrambi i coniugi; ma, nel 1930, Cupido scoccò la sua freccia e un incontro a Roma tracciò un nuovo cammino: Alexandra divorziata e, quindi, ormai libera, iniziò con Giuseppe una profonda amicizia che, pian piano si trasformò in grande amore.

Nel 1932 il principe, nonostante il timore reverenziale nei confronti della madre, convinse Licy a trascorrere la Pasqua con lui a Palermo, nel grande palazzo di famiglia nel quale viveva con i genitori. Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, dotata di grande carattere e molto legata all’unico figlio, avendo perso una bimba in tenerissima età, non vide di buon occhio quella donna divorziata, dal carattere dominante, eccessivamente franco e forte, in cui, probabilmente, si rivedeva.

Il rapporto difficile tra i due amori delle sua vita, spinse Giuseppe Tomasi a una scelta molto difficile e sofferta, quella di scrivere a entrambi i genitori, il giorno stesso del matrimonio, una lettera per comunicargli la decisione di sposarsi, facendo finta, però, che l’evento non fosse imminente. Mentre il padre si soffermò al testo, apprendendo la notizia con grande tranquillità, la madre, penetrando nel sottotesto, la visse con grande ansia.

Scrive Giuseppe: “Mai, dai tempi più lontani della mia infanzia, ricordo di aver ricevuto un benché minimo rifiuto da voi: la vostra approvazione basterà a darci una felicità che vi commuoverebbe se la poteste vedere”.

E il 29 agosto, allarmato per non aver ricevuto risposta, appena cinque giorni dopo, continuò: “Spero, ogni giorno, di ricevere una vostra lettera: ve ne prego, lasciatevi guidare dal cuore e dal vostro amore per me; ve ne prego abbiate fiducia anche nel buon senso e nella riflessività mia”.

Poco dopo, sentendo la sua preghiera inascoltata, prese l’importante decisione di portare la moglie a Palermo, ma, purtroppo, non riuscì nell’intento di far andare d’accordo suocera e nuora e, così, Licy se ne tornò da sola nel freddo nord, non avendo avuto il marito la forza e il coraggio di contrariare e lasciare la madre. Il matrimonio, tuttavia, resistette alle intemperie della vita e alla lontananza e, infatti, i coniugi, per circa dieci anni, si incontrarono in Lettonia, a Stomersee o a Riga. A riunirli, però, ci pensò la guerra: ad Alexandra le autorità sovietiche avevano confiscato il castello, insieme all’enorme parco e al lago di proprietà; a Giuseppe, invece, era stato bombardato impietosamente il Palazzo Lampedusa.

Riavvicinati da questi tragici eventi, capendo di non sopportare più l’uno l’assenza dell’altra, decisero di riprovarci e vivere nuovamente a Palermo in un appartamento ereditato e senza la presenza materna, che si ritirò in solitudine. Finito il conflitto, la loro vita trascorse piacevolmente: mentre Giuseppe passava le sue giornate, con il piccolo circolo di giovani discepoli che lo attorniava, nei caffè del centro, tra cui l’indimenticabile Bar Mazzara, uno dei luoghi in cui scrisse, probabilmente, alcune pagine del Gattopardo e che lo ricordava con una foto che campeggiava sulle sue pareti, Licy, ormai psicanalista affermata, si dedicava principalmente a studi sulla nevrosi, sulle psiconeurosi e sulla depressione, anche infantile.

Ma cosa si scrivevano nel decennio in cui restarono separati?
Le lettere, conservate e pubblicate nel 1987, cinque anni dopo la scomparsa della principessa, sopravvissuta al marito ben 25 anni, furono pubblicate dalla Sellerio col titolo “Lettera a Licy, un matrimonio epistolare“. I due innamorati, divisi solo fisicamente, si scrivevano in francese, pur capendosi benissimo in italiano, tedesco e russo. Inamovibile da Palazzo Lampedusa, rovente d’estate e gelido d’inverno, Giuseppe Tomasi che, alla morte del padre nel 1934, ne aveva ereditato il titolo, descriveva alla moglie i riti nei quali si sentiva ingabbiato e, da buon siculo, le descriveva i cibi con quella sensualità che apparirà in uno dei passi più memorabili de Il Gattopardo, la cena di Donnafugata.

Ecco il menù di un pranzo del 14 giugno del 1942: “Fettuccine au beurre et parmisan, un enorme poisson (une cernia) servi entier, avec son enorme goeule ouverte comme la baleine de Jonas, bouilli, flanque de pommes de terre ( de Holland) et accompagnè de deux soupieres, une de sauce mayonneise( froide) une de sause hollandaise ( chaude)… A la fin Giovanna a dit: ‘Abbiamo pensato di fare un pranzo leggero, per l’estate“.

Moltissime, com’è naturale che sia, le lettere d’amore, ecco quella che le scrisse da Capo D’Orlando, il 24 agosto del 1942, nel decimo anniversario del loro matrimonio: “Ma tres chere et tres aimèè, je t’ecris express aujourd’hui, le dixiemme anniversaire de notre marriage. Parmi toutes le choses en mouvement et fluide il n’y a de solde et d’immuable que mon amour pour tot qui augmente avec la distance et s’affermit avec l’absense”. Un amore che aumentava con la distanza e si rafforzava con l’assenza, anche se Licy, a volte e comprensibilmente, rispondeva con feroce sarcasmo al marito mammone, figura inusuale per la sua cultura.

«Mio angelo», scriveva lei e «Muri mia», rispondeva lui in questo epistolario che, intriso di delusioni, opposizioni familiari, censure, bombardamenti e rare scintille di gioia, permetteva loro di resistere ancora e ancora, viaggiando tra Palermo, Roma, Berlino e Riga. Sulla soglia della morte, avvenuta il 27 maggio 1957, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con grafia malferma, scrisse: «Delle persone vive, io amo solamente mia moglie, Giò, Mirella», dove Giò era il figlio adottivo Gioacchino Lanza, musicologo di fama e uno dei più grandi studiosi del teatro d’opera, e Mirella l’allora fidanzata di lui. Lo scrittore, tra le disposizioni testamentarie, affermò, anche, la volontà «che della mia morte non sia fatta nessun genere di partecipazione né attraverso la stampa né in altri modi» e il desiderio «che si faccia il possibile affinché sia pubblicato il Gattopardo, ma non a spese dei miei eredi, considererei ciò come un grossa umiliazione».

La Genesi del Gattopardo
Essendo stata fondamentale, nella stesura del Gattopardo, la figura di Alexandra, vogliamo raccontarvene la genesi. Tutto avvenne nel 1954 quando, accompagnati dal fedele Peppino Germanà, Giuseppe Tomasi si presentò a San Pellegrino Terme con il cugino Lucio Piccolo, invitato da Eugenio Montale per essere premiato come “poeta esordiente più interessante”.  Ma riavvolgiamo di poco il nastro: il Nobel per la letteratura (1975) aveva ricevuto un plico, non affrancato, di nove poesie e, incuriosito da quella bizzarra dimenticanza, aveva pagato, in quanto ricevente, 180 lire di tassa. Impressionato da quel giovane poeta emergente, originale e maturo, dalla poetica barocca e aulica eppure fluida, proiettato in un ermetico orizzonte magico-simbolico, voleva tributargli quel grande onore.

Con sua grande sorpresa si trovò di fronte un suo quasi coetaneo, cosa che glielo fece apprezzare ancora di più in quanto cantore di un universo proprio che apriva a ingressi di paesaggi inaspettati che fluivano, giocando con le parole. Vi state chiedendo il motivo di questa digressione? E’ presto spiegato: in quell’occasione, Giuseppe Tomasi di Lampedusa conobbe Bellonci e Cecchi, due critici letterari, e, spinto, dalla simpatica competizione che lo legava al cugino, entrato dalla porta principale nel mondo della letteratura ufficiale, su chi avesse superato chi in fama, iniziò la stesura de “Il Gattopardo”, romanzo a cui pensava da molto tempo.

Il motivo per cui chiamò il protagonista Don Fabrizio Salina sarebbe legato alla sua camera a Villa Piccolo, che guardava proprio una delle sette sorelle eoliane. Il romanzo, terminato nel 1956, fu spedito con una lettera di accompagnamento di Lucio Piccolo proprio da Villa Piccolo, a Capo d’Orlando, ma venne rifiutato da importanti nomi, tra cui Vittorini, consulente della Mondadori, da Flaccovio e dell’Einaudi, e passato per questo alla storia come “l’errore più grande dell’editoria italiana“. Invece era destinato a diventare il più grande capolavoro letterario del Novecento. Il libro uscì postumo nel 1958 , visto che il principe scomparve a Roma un anno prima, edito da Feltrinelli, a cura di Giorgio Bassani, ottenendo nel 1959 il Premio Strega e divenendo popolarissimo grazie, anche, alla trasposizione cinematografica di Luchino Visconti del 1963.

A nostro avviso, tra i motivi che contribuirono al suo successo, oltre la sua indiscutibile bellezza, anche l’essenza da intellettuale riservato, introspettivo, amante della lettura, del suo autore che viveva nel mondo, ma non apparteneva al mondo, proprio come il suo Don Fabrizio, e il fascino dell’aristocratico, in una società sempre più borghese o piccolo-borghese.

Per approfondire la vita di questa coppia straordinaria ci viene in aiuto il libro di Gabriele BonafedeAppunti di una giovane anima: Alexandra Tomasi di Lampedusa“, pubblicato nel 2018, che narra mezzo secolo di storia europea, compreso tra il 1904 e il 1954, attraverso l’evoluzione di un amore e di due vite straordinarie.

Vogliamo chiudere con “Muri mia“, il tenerissimo modo in cui l’ultimo dei Gattopardi chiamava la sua Licy e che tutti vorremmo sentire dalle labbra di chi amiamo.

Alla prossima.

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