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I Siciliani nella rivoluzione napoletana del 1820/21

venerdì 28 Febbraio 2020

L’eccessiva attenzione che gli storici siciliani hanno ai moti del 1820, una rivoluzione che in realtà può essere considerata una vera e propria controrivoluzione, ha fatto sì che si cancellasse del tutto la memoria del contributo che la delegazione siciliana ha dato ai dibattiti che hanno occupato i lavori del Parlamento di Napoli del 1820/21.

ibattiti che hanno dedicato molto spazio proprio alle condizioni dell’isola e a quanto accadeva, in particolare, a Palermo.

Eppure tali contributi vanno riproposti all’attenzione dei lettori come esempio di impegno e di iniziative che, in quella difficile stagione, miravano al cuore delle problematiche isolane.

Mentre infatti a Palermo, nell’antica capitale dell’isola, del disagio sociale presente avevano approfittato gli aristocratici per tentare di riaffermare, facendosi scudo di una rivolta di popolo, gli antichi privilegi opponendosi alle novità che scuotevano l’ancien regime meridionale, a Napoli ad opera di un piccolo ma agguerrito manipolo di democratici, che erano stati eletti al Parlamento delle Due Sicilie nelle province orientali della Sicilia, proprio quei privilegi venivano messi in discussione attraverso proposte che avevano dato luogo ad animati dibattiti.

Furono soprattutto quattro i deputati siciliani che si distinsero per la qualità degli interventi e per i contenuti di cui si fecero carico. Si trattava dei catanesi Vincenzo Natale, che peraltro fu anche segretario dell’Assemblea, di Paolino Riolo e di Francesco Strano nonché del siracusano Giuseppe Salvatore Trigona. Ognuno di loro va, dunque, ricordato per le proposte presentate e per le iniziative promosse, che furono tutte tese alla modernizzazione economico-sociale dell’isola.

Pur non trascurando il problema del rispetto dell’identità siciliana, che certamente non poteva essere sottaciuto, questa rappresentanza non ne fece argomento per mettere in forse il decreto del 1816 – suggerito a re Ferdinando dal de’ Medici – con il quale con un colpo di mano era stata unificata la corona di Sicilia a quella di Napoli battezzando così il nuovo Regno delle Due Sicilie che metteva la parola “fine”, almeno per l’isola, ad una sovranità che si faceva risalire allo stato normanno voluto da Ruggero II. Essi, infatti, ritenevano più importante, ad esempio, affrontare il tema, sempre attuale, della feudalità e con esso quello del maggiorascato, incompatibili, appunto, con l’equilibrato sviluppo economico e sociale dell’isola. Fondamentale era, inoltre, a loro giudizio il ridimensionamento della manomorta ecclesiastica rivisitando la situazione del monachesimo la cui potenza economica, e quindi politica, pesava sulle decisioni da assumere.

Ma anche battaglie, apparentemente secondarie, quali l’eliminazione delle dogane interne – che, di fatto, ponevano seri ostacoli alla libera circolazione delle merci e quindi all’espansione del commercio – venivano a costituire oggetto dei loro interventi. Stesso discorso riguardava la famosa tassa sul macinato definita, per la sua odiosità, come “tassa sulla povertà” il cui accoglimento fu ostacolato dalla crisi finanziaria che non giustificava la perdita di un cespite abbastanza consistente a ristoro delle casse dello stato. Insomma, un’attività intensa e di qualità che faceva risaltare la vacuità e il formalismo in cui si ingarbugliava il dibattito degli altri membri del Parlamento di cui però, nella memoria collettiva, non è rimasta, come invece sarebbe stato giusto che rimanesse, traccia alcuna. “

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