“Call me by your name” l’ultimo film di Luca Guadagnino chiude la sua trilogia sull’amore dopo “I am Love” e “A bigger splash”.
Approfondire il vasto tema delle relazioni sentimentali è come manipolare materia incandescente che può bruciarti o scivolarti dalle mani senza aver ricavato nessuna forma.
Questa volta il regista palermitano, da sempre molto più apprezzato nel resto del mondo che non in Italia, supera sé stesso realizzando un’opera che, a parer nostro, rimarrà nella storia del cinema internazionale.
Protagonista è Elio Perlman (Timothée Chalamet), adolescente proveniente da un’ ottima famiglia (il padre è uno stimato professore di Lettere Classiche) e ben lontano, per attitudini e interessi, dalla media dei suoi coetanei.
Agli inizi degli anni ’80 in una villa del Nord Italia immersa nel verde, con piscina ed ogni genere di confort per il corpo e per l’anima, il giovane e i suoi genitori trascorrono le vacanze estive, ospitando di anno in anno promettenti studenti.
E sarà proprio l’arrivo di Olivier (Armie Hammer), il nuovo tirocinante del professor Perlman, un ventiquattrenne americano dal fisico statuario e dall’intelligenza brillante, a sconvolgere la tranquilla estate del giovane.
Il film di Guadagnino nasce come adattamento dell’omonimo libro di André Aciman, testo cult nella comunità LGBT, scritto a quattro mani con James Ivory, e giunge, nella sua completezza, in ciò che può essere considerato un capolavoro della settima arte.
Definirlo un film sull’amore omosessuale sarebbe veramente riduttivo: il regista affronta i temi del desiderio, della passione, della resistenza che tutti, non solo all’alba dell’adolescenza, proviamo davanti al precipizio dell’innamoramento.
C’è l’estasi del piacere fisico, la scoperta della corporeità, della fragilità e insieme della forza che può generare l’alterato battito del cuore nell’incrociare lo sguardo dell’altro.
C’è la libertà di chiedere e concedersi l’amore; c’è la scoperta dell’amicizia disinteressata e altruista e, non ultimo, c’è un grande esempio di rapporto padre/figlio.
E’, in definitiva, un potentissimo vortice emotivo quello reso dal regista che, nel non considerare i limiti sociali e culturali sulla sessualità, coinvolge tutti i personaggi del film e con essi lo spettatore.
L’occhio, poi, con cui tutti questi temi vengono trattati oscilla sempre tra la raffinatezza e l’intelligenza emotiva.
Le parole e le musiche non sono da contorno ma hanno un loro ruolo ben definito: se i versi di Margherita d’Angoulême, tratti da L’Heptaméron, pongono l’annosa questione sul dichiararsi o meno i brani originali, composti da Sufjan Stevens, aggiungono quel tocco in più di sublime poeticità.
E sullo sfondo della storia d’amore si scorge anche un ritratto volutamente politico del nostro Paese reso dai cartelloni elettorali del PCI e del PSI, dai quadri alle pareti di Mussolini, dai dibattiti su Bettino Craxi, riservando un cantuccio, nelle retrovie di un passaggio in Tv, anche ad un giovane Beppe Grillo.
Il film, infine, non soffre di nessuna sbavatura narrativa o tantomeno stilistica ed offre non pochi momenti di elevato lirismo; tra questi il dialogo tra Elio e il padre, un’evoluta, e per nulla scontata, riflessione sul valore delle ferite d’amore, e la scena finale in cui il giovane Timothée Chalamet supera se stesso.
“Call me by your name”, già candidato a più di 300 premi internazionali, uscirà nelle sale cinematografiche il 25 gennaio.