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Mafia, 32 arresti a Palermo. I boss rifornivano di coca insospettabili professionisti | VIDEO

martedì 12 Marzo 2019

 

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Trentadue persone ritenute appartenenti al mandamento mafioso di Porta Nuova sono finite in manette all’alba a Palermo, nel corso di un blitz, ribattezzato “operazione Atena”. Le accuse sono a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsioni aggravate dal metodo mafioso, favoreggiamento reale aggravato, trasferimento fraudolento di valori, sleale concorrenza aggravata dalle finalità mafiose, spaccio di sostanze stupefacenti e detenzione illecita di armi.

L’indagine, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Salvo De Luca, dai sostituti Maurizio Agnello e Amelia Luise, ed eseguita dai carabinieri, segue quella dello scorso 4 dicembre 2018 quando era stata smantellata la nuova commissione provinciale di cosa nostra palermitana, che si era riunita per la prima volta il 29 maggio 2018 ad Altarello di Baida. In quell’occasione erano già state arrestate undici persone ritenute appartenere al mandamento mafioso di Porta Nuova, tra cui Gregorio Di Giovanni, detto il reuccio, considerato il nuovo rappresentante del gruppo mafioso.

Fiumi di coca a insospettabili professionisti

Inoltre, i boss di Porta Nuova avrebbero organizzato le piazze di spaccio di droga, che continua a costituire la principale fonte di reddito di cosa nostra (seguita subito dopo dalle estorsioni), diretta conseguenza della domanda che non accenna a decrescere, anzi sembra in continua crescita; sono state registrate, nel corso delle indagini, numerose richieste di acquisto di cocaina anche da parte di una nutrita schiera di acquirenti costituita da imprenditori e liberi professionisti della città. Duecento clienti, per lo più insospettabili professionisti, fra avvocati, medici, commercialisti, ristoratori, architetti, imprenditori. La coca veniva venduta a volte direttamente a domicilio, in studio, o in alcuni noti locali frequentati per lo più dalla “Palermo bene”,

Le indagini successive al blitz di dicembre hanno accertato che Di Giovanni, dopo la scarcerazione seguita a una condanna passata, aveva immediatamente affiancato il reggente del mandamento Paolo Calcagno, prendendone poi il posto alla guida della “famiglia” dopo l’ arresto. Da allora, secondo le indagini, era diventato lui il capo del clan: per un periodo suo vice era stato il fratello Tommaso, poi anche lui arrestato. Il capomafia è stato affiancato nella gestione delle attività illecite da uomini di fiducia di diversi quartieri del centro della città.

L’inchiesta, oltre a ricostruire gli assetti mafiosi, ha svelato che Calcagno, dal carcere, dava ordini per il sostentamento della sua famiglia. Nel corso dei colloqui in carcere forniva alla moglie e al cognato indicazioni sui soggetti cui rivolgersi per ricevere le somme di denaro che spettavano loro e i profitti degli investimenti economici realizzati in attività commerciali pienamente funzionali e attive.

La mafia imponeva una marca di caffè ai bar e investiva sui bus turistici

Sono state anche individuate due diverse attività, una imprenditoriale e l’altra commerciale, ubicate a Palermo e riconducibili agli esponenti di vertice di cosa nostra, ma intestate a prestanome e quindi sottoposte a sequestro preventivo. Infine, sono stati individuati gli autori di 5 estorsioni consumate/tentate nei confronti di imprenditori e commercianti costretti al versamento a cosa nostra di somme di denaro.

Droga, estorsioni, imposizione di una marca di caffè ai bar, ma anche turismo. “Cosa nostra spa” diversifica gli investimenti. Emerge dall’ultima inchiesta dei carabinieri di Palermo, che oggi hanno arrestato 32 persone. Dall’indagine è venuto fuori che i boss del “mandamento” di Porta Nuova, uno dei più ricchi della città, avevano acquistato una società: la Pronto Bus Sicilia, che preleva i turisti al porto di Palermo e li porta a visitare i siti artistici e monumentali della città. L’attività, che è stata sequestrata, si sarebbe sviluppata grazie agli investimenti della “famiglia” guidata dal boss Gregorio Di Giovanni. Il capomafia l’aveva intestata a prestanome.

 

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