Il Messico, paesaggisticamente, è un luogo bellissimo, denso di evidenze architettoniche che ci raccontano di antiche culture e di splendide civiltà. Una terra ricca a tal punto da potere offrire una vita più che dignitosa ai suoi oltre 130 milioni di abitanti ma, della stessa, c’è un’altra immagine, in questo caso tutt’altro che idilliaca, quella di un Paese dove la povertà raggiunge limiti insopportabili, dove lo sfruttamento è regola, dove la dignità delle persone viene quotidianamente calpestata, dove la stessa vita umana non ha alcun valore. Un Paese afflitto dalla endemica corruzione, praticamente in mano ad una criminalità spietata e dissacrante che non si ferma dinanzi a nulla. Un vero e proprio inferno dei viventi, soprattutto per chi ha avuto la sfortuna di nascere dalla parte “sbagliata”.
Di questo Paese, delle sue contraddizioni, delle grida disperate della sua gente, delle eroiche lotte di qualche maestro o di qualche prete di strada Francesco Forgione, uomo di sinistra di grande onestà intellettuale, traccia un profilo quanto mai inquietante, nel suo “Mais Rosso, viaggio in Messico fra narcos, farfalle e indios ribelli”, Zolfo editore.
Al centro del libro ci sta l’incontro nell’Acapulco un tempo paradiso di miliardari in cerca godimenti ed ora dominata dai narcotrafficanti, con Guillermo, El Carnicero cioè il macellaio, un criminale appena uscito dal carcere, che si dichiara disponibile a raccontare la propria vita. Quella di Guillermo, ma come Guillermo ce ne sono mille altri che hanno vissuto la sua esperienza, è la storia maledetta di un bambino cresciuto nel degrado del barrio, che si confronta con la brutalità paterna, che sperimenta giornalmente la prepotenza e gli abusi dei criminali che dominano il territorio, che matura all’interno di un contesto senza vie d’uscita se non quello di divenire, a sua volta, assassino, stupratore, brutale massacratore di uomini e donne. Una strada difficile che tuttavia è l’unica possibilità praticabile per un ragazzino per uscire dalle “baracche e dalla merda del suo barrio”. Guillermo, con notevole freddezza, in poco tempo percorre infatti quella strada, il suo “vedranno chi sono io” viene contrappuntato da ogni genere di delitti, ivi compreso lo squartamento dei corpi senza vita delle vittime i cui resti vengono abbandonati, poi, nelle discariche che ammorbano l’aria con le loro fetide esalazioni. Un percorso che non prevede emozioni, rimorsi, pentimenti ma solo e sempre più aberrazioni. L’esperienza criminale di Guillermo termina lontano da Acapulco, quando ingaggiato per un’azione terroristica contro gli indios che avevano trovato voce e appoggio in due fratelli, l’uno sindaco l’altro medico di un paesino vicino Igualà nella Sierra, viene ferito e abbandonato dai compagni in balia di quella gente che avrebbe dovuto intimorire. Guillermo si salva grazie all’intervento del medico, il suo obiettivo, e scopre il lato umano che la durezza della vita gli aveva soffocato.
Quella di Guillermo appare dunque una testimonianza emblematica, perché lui stesso incarna le contraddizioni del Messico, questo immenso territorio, vero “inferno dei vivi”, nel quale – complici anche gli interessi del potente vicino americano – “non si castiga il delitto, si punisce solo la povertà” e in cui la parola legalità sembra essere stata cancellata dal vocabolario. Un libro verità, scritto con grande maestria e con altrettanta passione che vale la pena leggere come monito contro l’indifferenza della gente di fronte ai fenomeni di degrado e alle perverse connessioni fra potere e criminalità di cui anche il nostro Paese non è del tutto immune.
Pasquale Hamel