Ha scelto di essere processata col rito abbreviato Kadga Shabbi, la ricercatrice universitaria libica finita in carcere per istigazione a delinquere in materia di reati di terrorismo. Nella prossima udienza, il 3 febbraio, il pm Geri Ferrara presenterà la richiesta di pena. In Italia era arrivata quattro anni fa. Ed era riuscita a vincere un dottorato di ricerca in Economia all’Ateneo del capoluogo mantenendo le sue tradizioni, la sua fede e le sue convinzioni politiche. E, dietro la professione ufficiale di ricercatrice universitaria, sostengono gli inquirenti, avrebbe nascosto una rete di contatti con esponenti di organizzazioni terroristiche islamiche e foreign fighters e una fitta attività di propaganda in favore di Al Qaeda. Contro di lei gli investigatori hanno prodotto intercettazioni telefoniche e i dati dei suoi pc.
Dalle indagini sarebbe emersa l’attività di propaganda svolta dalla ricercatrice in favore di una serie di organizzazioni terroristiche islamiche come Ansar Al Sharia Libya, tra le maggiori oppositrici del governo di Tobruk, e del suo leader Ben Hamid Wissam. La donna, interessatissima alle vicende politiche del suo Paese, visitava continuamente le pagine Facebook di diversi gruppi legati all’estremismo islamico, condivideva sul suo profilo del social network materiale di propaganda della attività di organizzazioni terroristiche: volantini, ‘sermoni’ di incitamento alla violenza e scene di guerra.
Tra le accuse anche i contatti con due foreign fighters che avevano combattuto in Libia ed erano poi tornati in Inghilterra e in Belgio. La ricercatrice avrebbe anche tentato di fare avere un visto di studio al nipote, Abdulrazeq Fathi Al Shabbi, combattente ricercato dalle truppe dell’esercito regolare, vicino all’organizzazione Ansar al Sharia, formazione salafita collegata alla rete di jihadismo internazionale autrice, nel 2012, dell’attentato a Bengasi al Consolato americano. Il ragazzo sarebbe morto in un conflitto a fuoco e in Italia non sarebbe mai giunto. In diverse intercettazioni la donna – secondo il pm – chiedeva vendetta per il nipote. Il gip un anno fa la mise ai domiciliari contrariamente a quanto aveva chiesto la Procura di Palermo per la quale la donna andava tenuta in cella. La Cassazione diede ragione ai pm ritenendo che ”la libica avesse mostrato di essere in grado di padroneggiare gli strumenti di comunicazione di massa con spregiudicatezza e di volerli finalizzare alla diffusione dell’esaltazione della guerra e del terrorismo islamico”.