La ricorrenza del trentesimo anniversario della scomparsa di Leonardo Sciascia avrebbe meritato una maggiore attenzione e valorizzazione del suo pensiero e delle sue opere. Egli non è stato, infatti, solo uno dei maggiori rappresentanti della letteratura del Novecento ma il suo impegno politico e civile. Le sue riflessioni, l’approccio severo e rigoroso sono stati un contributo fecondo alla comprensione della crisi della nostra società.
A questa negligenza, ha fatto eccezione qualche iniziativa locale, un ricordo pubblico del giornale La Repubblica che gli ha dedicato un inserto e il bel libro di Felice Cavallaro, “Sciascia l’eretico“.
Della vita di Sciascia, Cavallaro ne parla ampiamente: uno spazio importante lo ebbe il suo rapporto con il partito, sempre dialettico, spesso segnato da dure polemiche, in particolare nella valutazione dell’operazione “Milazzo”. Anche per questo suscitò grande scalpore e sorpresa l’avere accettato la proposta di Achille Occhetto di candidarsi nella lista del PCI per il rinnovo del consiglio comunale di Palermo (15 giugno 1975) allora dominato dalla triade Gioia, Lima, Ciancimino.
Bellissimo fu il discorso tenuto al teatro Politeama in occasione della presentazione della candidatura, in cui lanciò la proposta del “Buon governo di Palermo” e paragonandosi ad André Gide “che si fece giudice per conoscere dall’interno il funzionamento della giustizia“, anch’egli voleva vedere dal di dentro come funzionava il “Palazzo” secondo una definizione di Pasolini.
L’appello per la libertà e il buon governo di Palermo lo mutuò dal semplice discorso, Simple Discours, che era il titolo di un libello di Paul Courier.
<<….e come Courier si distoglieva dal suo amatissimo lavoro di filologo per occuparsi delle angherie che i contadini della sua regione subivano, anche noi ci distogliamo da un lavoro che ci è congeniale…. Vogliamo parlare di palermo. Che non è un piccolo paese come quello su cui centocinquant’anni addietro Courier faceva il suo simple discours, ma uguale è il problema che lo travaglia: un problema di libertà>> .
Avendo avuto il privilegio di sedere insieme a Sciascia negli stessi banchi del consiglio comunale posso testimoniare che, a differenza di Guttuso che partecipò poche volte sempre in maniera distratta e svogliata, senza mai intervenire, egli svolse con scrupolo questo suo ruolo, occupandosi della questione dell’acqua, del problema della casa, punti semplici ma per lui qualificanti del programma del buon governo.
I rapporti con il PCI e il gruppo consiliare guidato da Nino Mannino sono ottimi e segnati da un comune impegno. In una pausa dei lavori gli chiedemmo, con Poldo Ceraulo e Gabriella Alù, cosa pensasse di noi, giovani dirigenti del PCI. “Siete bravi, soprattutto onesti e competenti, ma avete un limite, siete troppo conformisti“.
Tutto fila liscio fino a quando il PCI mantiene un ruolo di opposizione, ma tutto cambia con mutarsi della vicenda politica nazionale, che si riflette anche sulla Sicilia e Palermo con la politica di solidarietà nazionale che prevede anche forme di collaborazione con la DC.
Si accorge che spesso il PCI in consiglio comunale privilegia più i rapporti politici che i contenuti e per salvaguardare le nuove alleanze è disposto ad ingoiare qualche rospo e chiudere un occhio sull’inerzia del consiglio comunale, sempre più una palestra oratoria che un luogo di decisione per la città.
Nel marzo del 1077 si dimette con grande imbarazzo del Partito Comunista.
Lo scrittore spiegherà che uno dei motivi del suo gesto era dato anche per il ritardo con cui iniziavamo i lavori del consiglio comunale a cui, con il solito sarcasmo, replicherà Giancarlo Pajetta: <<bastava che si recasse due ore dopo l’orario della convocazione….>>.
Emanuele Macaluso dal canto suo critica Occhetto per averlo candidato, non tenendo conto che Sciascia “aveva sempre diffidato del togliattismo e della politica delle grandi alleanze nazionali e autonomistiche”, ma critica anche lo scrittore per avere accettato la candidatura. Come il PCI avrebbe dovuto prevedere il suo dissenso rispetto alla politica del compromesso storico, egli avrebbe dovuto sapere che quella era la politica del PCI anche in Sicilia.
Anche se Sciascia dichiarerà che continuerà a votare PCI “ma per stimolarlo e pungolarlo, non per reggergli la coda”, i rapporti si logoreranno sempre più.
In occasione di un processo a Torino alle Brigate Rosse, alcuni cittadini, tra cui il poeta Eugenio Montale, rifiutarono la loro nomina a giudici popolari, suscitando forti polemiche.
Sciascia prese le loro difese. Anch’egli avrebbe rifiutato “cercando un medico compiacente che gli certificasse un’affezione da sindrome depressiva”. Ne nacque una durissima polemica con Giorgio Amendola che accusò Sciascia e in generale gli intellettuali di viltà e di scarsa coscienza civile, attribuendo allo scrittore l’espressione “né con lo Stato, né con le BR”, frase che in verità Sciascia non aveva mai pronunciato.
Segui poi la pubblicazione del libro Candido in cui attraverso la storia del protagonista mise in risalto le contraddizioni delle due chiese, il cattolicesimo e il comunismo, una che confluiva nell’altro e viceversa.
Il libro seguiva quelli de Il Contesto e Cadaveri Eccellenti in cui rilevava le ambiguità dell’opposizione comunista, tirandosi addosso una feroce recensione sull’Unità da parte di Napoleone Colayanni.
La decisione di candidarsi nel 1979 al parlamento nazionale nella lista de partito radicale di Marco pannella scaverò un solco incolmabile tra ko scrittire e il PCI.
Alla rottura politica si aggiunse poi anche quella dei rapporti personali in particolare con il suo amico Renato Guttuso. Sciascia, infatti, ebbe a dichiarare che in occasione di una conversazione privata con Enrico Berlinguer, presente Guttuso, il segretario del PCI gli avrebbe confidato che nel rapimento di Aldo Moro erano coinvolti i servizi segreti cecoslovacchi. Berlinguer smentì decisamente la circostanza e querelò lo scrittore che, a sua difesa, chiamò a testimoniare Guttuso il quale tra Sciascia e Berlinguer scelse il segretario del suo partito. Ponendo fine a una lunga e sincera amicizia.
I rapporti, poi, tra Berlinguer e Sciascia si avvelenarono al punto che in occasione di una sua presenza a Palermo lo portammo a pranzo da Spanò e, appena entrati chi c’era al tavolo di fronte? Proprio Sciascia. Non solo non si salutarono ma facemmo in modo che Berlinguer sedesse con le spalle rivolte a Sciascia, anche con un po’ d’impaccio, in modo che non lo incrociasse nemmeno con lo sguardo.
A giustificazione della posizione assunta da Berlinguer nel negare di avere pronunciato quella frase, occorre dire che egli non avrebbe mai potuto confermarla e non solo per motivi politici. Si spiega così anche la scelta di Guttuso.
Era quello un momento di grande tensione nei rapporti tra il PCI e il partito comunista sovietico e gli altri paesi del blocco comunista, in seguito alle coraggiose posizioni di dissenso e di critica a quei regimi autoritari e repressivi delle libertà.
In gioco vi era la stessa vita di Berlinguer che non a caso era stato vittima di un attentato, simulato da incidente stradake, in iccasione di un suo viaggio a Sofia in Biklfaria. La conferma di questo episodio la ebbi io stesso a Palermo, allorché lo accompagnai in macchina all’aeroporto. Alla guida vi era Peppino Chiazza che andava a velocità sostenuta, redarguito subito da Berlinguer perché rallentasse, “mi basta quello che mi è successo in Bulgaria” e in raro momento di confidenzialità, raccontò i retroscena.
Sciascia ovviamente non poteva sapere queste cose.
In ogni caso con questa rottura il PCI perse un interlocutore fecondo che, con posizioni anche critiche, qualche volta non condivisibili, lo avrebbe certamente aiutato a comprendere la realtà e i suoi cambiamenti e a non smarrire ogni capacità critica.
Soprattutto oggi si avverte la mancanza di quella “bussola”, di fronte alla povertà culturale e civile che ci circonda e al deserto delle ideologie.