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“Un pamphlet contro le scuole di scrittura creativa”. Dialogo con Alfio Squillaci

lunedì 22 Giugno 2020

È da poco uscito il pamphlet “Chiudiamo le scuole di scrittura creativa”, edito da GOG che, rispecchiando la natura critica del suo genere letterario di appartenenza, diffusosi soprattutto nel ‘700, è un attacco diretto e puntuale a una realtà esistente ai nostri giorni. Il suo autore, Alfio Squillaci, laureato in filosofia, siciliano ma residente da quarant’anni a Milano, è anche il direttore della pagina web “La Frusta letteraria”, che già dal titolo si ispira alla rivista pubblicata a Venezia per qualche anno nella seconda metà del XVIII secolo e quasi interamente scritta da Giuseppe Baretti. Squillaci, evidentemente attratto dal secolo dei Lumi, un po’ come Aristarco Scannabue (pseudonimo di Baretti), unisce però la mordacità della critica a un forte senso della tradizione culturale, tratto affatto dirimente quando è accompagnato da solide basi, unite a una vivacità intellettuale che scruta e attraversa con occhi propri i fenomeni che ci circondano. Lo spirito caustico di Antani- che facciamo nostro – non poteva non fiutare come un segugio questa chicca che attacca il mondo fatato delle scuole di scrittura creativa. Luoghi magici e lambiccati, macchine dei sogni a pagamento che trasformerebbero il feto in bambino, la potenza in atto, l’abbozzo di un romanzo in un best seller e l’autore in una star. A sfatare questi assunti, ci pensa proprio Alfio Squillaci che si è reso subito disponibile alle mie domande e per questo lo ringrazio.

Le scuole di scrittura creativa sono un aspetto di quel processo che lei definisce “colonialismo culturale o sottomissione dell’immaginario iniziato negli anni ’50”. Questo fenomeno discende dalla diffusione della società dei consumi secondo il modello americano. I nostri ragazzi non festeggiano più la Festa dei morti, ma Halloween; tra un po’ magari celebreremo tutti il giorno del Ringraziamento. Per contro alcuni intellettuali si sono inventati questa formula: le scuole di scrittura. Ma, come i venditori dei numeri del lotto non giocano i numeri, perché questi signori possono farti scrivere il capolavoro che potrebbero invece scrivere loro?

«Non lo scrivono loro perché, nonostante la fiducia riposta nella trasmissibilità delle tecniche e dei saperi letterari, il successo, la riuscita, il riscontro pubblico della scrittura restano fattori misteriosi. Nel pamphlet dico che se si potesse essere certi che il libro che stiamo scrivendo, e di cui le scuole di scrittura paiono conoscere tutte le alchimie che pretendono di insegnarci, sarà sicuramente un best seller, ipso facto non esisterebbero più i best seller, perché sarebbero alla portata di tutti».

Quali famosi autori verrebbero oggi bocciati da una scuola di scrittura e perché? Mi basti che ne citi tre.

«Bisogna vedere chi si ha come commissari esaminatori. Sicuramente Balzac se avesse avuto come tutor Flaubert, il quale scriveva lentamente e non amava le trame largheggianti, i coups de téâtre e lo stile “sporco” di Balzac. O Flaubert stesso se avesse avuto come insegnante Carver, che amava la concisione cechoviana e i periodi brevi, mentre Flaubert si perdeva in ampie volute di prosa. O infine Gadda se fosse stato esaminato da Moravia, il quale diceva dello scrittore milanese che gli ricordava il dolce romano dei pignoccati, alludendo alla scrittura troppo “artefatta” dello scrittore milanese, e di cui si poteva fare al massimo solo qualche assaggino come per il dolce romano troppo “dolce”».
Nel suo pamphlet lei afferma che, se le scuole di scrittura creativa non “riescono a darci un vero artista servono a creare un onesto operaio nella catena di montaggio della narrativa di consumo”. Cosa ne diranno i posteri? O meglio: quanto potranno durare questi fenomeni?

«Dureranno finché ci sarà l’industria culturale, cioè sempre temo. Nel mio saggio distinguo una produzione con alto “orgoglio letterario” per nulla insegnabile in quanto legata intimamente a un autore (di solito un grande autore), unico e non replicabile,  nelle cui opere  l’elemento “servile” della trama (della storia e dell’intreccio) sono in genere elusi, e costituendo ciò il loro tratto distintivo, da una produzione industriale in cui sono applicabili i metodi manualistici adottati dalla scuole di scrittura creativa che un critico americano chiamava Howtoism (da “how to do it”, come farlo)  che si concentra proprio sull’architettura  delle “storie”. Argomento d’altra parte che l’uso massivo di cliché o topoi narrativi in questo genere di letteratura, se non sorvegliato da intelligenza critica e creatività (fattori non insegnabili) rischia da un lato la produzione in serie sempre più massificata e dall’altro una certa stanca ripetitività dei plot. D’altra parte la questione è abbastanza vecchia: già Orazio nella sua Ars poetica, distingueva ars da ingenium, la prima l’elemento tecnico e meccanico, e il secondo lo spirito creativo unico e irripetibile e non insegnabile». 
Il libro si pone sempre con una certa autorevolezza di fronte agli occhi dei nostri ragazzi e nelle scuole si propongono spesso le letture e gli incontri con gli autori. Non si corre il rischio di confondere gli alunni? Potrebbero crescere convinti di essere di fronte a un testo di ‘letteratura vera’. Come fare comprendere ai ragazzi la cesura tra letteratura e narrativa di consumo?

«Non credo che davanti a ogni opera si possa mettere un cartellino indicandone la bontà redazionale o la riuscita artistica ex ante. Sarebbe un oltraggio all’intelligenza del lettore. Anche perché in opere di consumo talvolta si coglie il guizzo di un genio in atto.  L’affinamento del gusto resta un’avventura individuale dello spirito. Che spesso si forma proprio a partire dalle opere meno riuscite.  Al contrario della legge di Gresham (moneta cattiva scaccia moneta buona) il lettore “creativo” imparerà a proprie spese il cammino di una vita estetica scelta e appagante. Anzi sono le cattive opere che forse ci faranno conoscere le buone non appena ci passeranno tra le mani. Sempre che tale tipo di lettore sia spinto da una idea permanente di perfezionamento, che gli antichi e nei manuali di musica viene chiamato gradus ad Parnassum».

Lei sottolinea quanto sia bizzarro il successo del noir sulla scia di Camilleri in un Paese come il nostro che di fatto tende a non sbrogliare i suoi viluppi: si pensi ai polizieschi sciasciani che, anziché risolversi, nel finale si complicano, anzi, si incupiscono, non arrivando mai a una soluzione. Come spiega questa tendenza italiana degli ultimi anni?

«Giustamente, proprio sulla scia di quanto da lei osservato, Moravia diceva di Sciascia che il suo illuminismo era rovesciato. Gli illuministi partivano dalle tenebre per giungere alla luce, Sciascia, pur allievo di Diderot, partiva dalla chiaroveggenza illuministica per spingersi nel buio dei misteri isolani e tentare di illuminarli. Il successo di Camilleri e dei polizieschi (una vera grandinata) arriva relativamente tardi nel nostro contesto letterario.  Ricordo che il primo e unico giallista fu Scerbanenco, per lungo tempo rara avis. La giallista Laura Grimaldi diceva che il giallo interessava poco agli italiani (lato autori), cattolici e indulgenti, mentre per lungo tempo era stata una pratica prevalentemente protestante, cultura più severa e inflessibile nella ricerca dei rei. Penso che il successo del giallo (o intreccio di risoluzione) sia come una specie di gioco di società, una sciarada collettiva. E io non amo l’enigmistica. Se mi è consentito ho amato molto di più il Camilleri non giallista della Bolla di componenda”, “La concessione del telefono”, “Il birraio di Preston”».

Ultima domanda, forse un po’ tignosa: lei è siciliano. Quale autore siciliano vivente salverebbe?

«Guardi, seguo con curiosità su Facebook Nadia Terranova e Viola Di Grado, ma non mi pronuncio sulle loro opere, che chiederebbero giudizi più articolati piuttosto che promozioni o condanne sommarie.  Ho invece apprezzato la verve critica di Salvatore Ferlita di cui mi è passato tra le mani e ho letto con vivo interesse un volumetto non recentissimo “Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione” (Liguori, Napoli 2011), in cui maltratta un autore che io invece amo molto».

Saluto Alfio Squillaci, anche se aggiungerei almeno un altro nome tra gli scrittori siciliani.  Ma lo dico perché, probabilmente, seguo la mia ‘individuale avventura dello spirito’, come lui l’ha definita. Questa espressione mi piace. Gliela rubo.

 

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