Il “Re Lear” che in questi giorni si replica la Teatro Biondo (che lo produce insieme al Teatro di Roma – Teatro Nazionale) ha poco a che vedere, per precisa volontà del regista Giorgio Barberio Corsetti, con il personaggio delineato da Shakespeare agli inizi del ‘600.
Interpretato da un plastico, a tratti mellifluo, Ennio Fantastichini, Lear è un vecchio monarca che, per precipua volontà, decide di lasciare tutto in mano alle figlie e godersi una nuova adolescenza.
Il plot del potere, dunque, voluto da Shakespere c’è tutto, è la sua declinazione ad essere innovativa e, per certi versi, interrogativa.
A sostegno di questa “riscrittura” risultano indispensabili nello spettacolo le scene (Francesco Esposito), le proiezioni video (Igor Renzetti e Lorenzo Bruno) e le musiche eseguite dal vivo (Luca Nostro).
Lo spettacolo inizia dietro le quinte: è lì la festa che, a sipario chiuso, il pubblico in sala può vedere in video-proiezione, prima traccia dell’impronta sperimentale del regista.
La goliardia che esplode nella dissolutezza dei corpi, a cui sono concessi baci incestuosi, e nella fastosità dei costumi, in scene che fanno pensare all’ultimo miglior cinema italiano, lascia il posto alla “tragedia che si fa farsa e che può essere vera”.
“Il peso dell’amore non è nelle parole” ma il Re questo non lo capisce e, “in preda ad una vecchiaia che lo rende imprevedibile”, affida il suo potere, in forma e sostanza, alle figlie Goneril e Regan.
Cordelia, “balsamo della sua vecchiaia”, l’unica erede che si macchia di sincerità verso il patriarca, viene allontanata.
In un contrasto efficacissimo tra l’impiego della tecnologia (sorprende l’attrice che usa sul palcoscenico una telecamera per riproporre, in primi piani, i volti di coloro che parlano o la simbolica rinascita del Re da uno squarcio sullo sfondo che ritrae le figlie), i colori sgargianti dei costumi e l’alternanza di quadri scenici, ad impianto fiabesco, si ripercorre la disfatta di Lear e di tutti i personaggi, stelle cadenti in un cielo che, forse responsabilmente, li spinge a compiere azioni malvagie.
Dall’altare alla polvere il passo è breve: l’apparente serenità tra padre e figlie, mariti e servi, presto si incrina per opportunismi e visioni differenti.
“A forza di correre dietro al bello ci perdiamo il bene per strada”: tutto rotola verso un precipizio morale tinto di un nichilismo tristemente contemporaneo.
La scelta del testo, inoltre, nella traduzione di Cesare Garboli, accentua questa visione con riflessioni, brevi moniti gettati qua e là, che spaziano dalla condizione della vecchiaia alla mostruosità della natura umana.
In un coro, infine, di personaggi e ruoli, anche in duplice interpretazione, tutti convincenti, spiccano sulla scena, oltre a Fantastichini, il matto (Andrea Di Casa) e Goneril (Francesca Ciocchetti), mentre il pubblico della prima, dagli applausi calorosi, sembra non aver sofferto lo svecchiamento della tragedia.
Repliche fino al 23 dicembre.