Manca poco al fischio di inizio della 22esima edizione dei Mondiali di calcio, che quest’anno sarà ospitata in Qatar. L’evento, su cui sono stati investiti oltre 229 mld di dollari, è stato presentato con grandi aspettative e ambizioni: sette stadi nuovi, tram e metro di ultima generazione, un nuovo aeroporto, intere città e quartieri residenziali sorti dove fino a qualche anno c’era solo deserto. Non tutto però sembra andare nella direzione sperata.
Tra i tanti lati oscuri sollevati, fin dalla sua assegnazione nel 2010, quello più triste riguarda gli stadi. Costruiti da zero o ristrutturati: i lavori hanno richiesto tanti anni ma anche tante braccia. E proprio su questo aspetto si sono focalizzate alcune inchieste.
A sollevare il polverone è stato il “The Guardian”, pubblicando un lungo report sui morti nei cantieri, nati proprio per il Mondiale. Non due o tre, e nemmeno una decina. I deceduti sarebbero più di 6500. Un numero enorme e senza precedenti che ha subito indignato il mondo del calcio, e non solo.
Una coalizione di Ong per la difesa dei diritti umani aveva anche lanciato la campagna #PayUpFIFA, per chiedere alla FIFA e al Governo qatariota di risarcire economicamente le famiglie dei lavoratori morti e feriti. In un’intervista, il ministro del lavoro Ali Ben Samikh Al-Marri aveva liquidato il tutto, definendo la campagna come una “trovata pubblicitaria” montata per “screditare il Qatar“.
Sempre lo stesso ministro, ad una settimana dall’inizio dei Mondiali, ha annunciato l’istituzione di un fondo da 350 milioni di dollari per risarcire le famiglie dei lavoratori rimasti uccisi nella costruzione di stadi, strade e infrastrutture per l’evento. Incalzato dalla Sottocommissione Diritti Umani del Parlamento europeo a Bruxelles, il ministro ha precisato che “risarcire le vittime è un dovere di natura etica, per questo invito i sindacati e le organizzazioni della società civile a fare i nomi delle vittime che ancora non hanno ricevuto risarcimenti, siamo pronti a compensare le perdite“. E ha smentito: “Un giornale parla di 6 mila morti, un altro 10 mila, un terzo 15 mila, come se fosse una gara al rialzo. Queste cifre sono false: dovreste affidarvi a fonti di informazione effettive“. Grande assente a Bruxelles la Fifa. La posizione della Federazione non è stata mai stata chiarissima e si allontana da quella del “The Guardian”, a cui si allineano anche Amnesty International e Business & Human Rights Resource Center. I morti sarebbero “soltanto” 3.
LE PROTESTE
Sul tema impazzano le polemiche. Negli stadi, dalla Norvegia, alla Germania ma anche in Italia, come a Roma, Bologna o Cosenza, sono apparsi degli striscioni che incitano al boicottaggio con il motto #BoycottQatar. Eccone alcuni:
Anche alcuni giocatori anno preso una posizione netta, l’ultimo è stato il portoghese Bruno Fernandes. Il fantasista del Manchester United, in un’intervista a Sky Sports UK, ha dichiarato: “Abbiamo visto cosa è successo nelle ultime settimane e mesi. Tante persone che sono morte durante la costruzione degli stadi. Non siamo contenti di questo. Vogliamo che il calcio sia per tutti, che tutti siano inclusi e coinvolti nella Coppa del Mondo. Penso che questo genere di cose non dovrebbe mai accadere. La Coppa del Mondo non è solo calcio, è una festa per i tifosi e i giocatori, e una gioia da vivere“.
LE CONDIZIONI DEI LAVORATORI QATARIORI
Parlare dei diritti dei lavoratori in Qatar equivale a una sorta di sfruttamento legale. Il 95% della forza lavoro dell’Emirato viene dall’estero, soprattutto da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka. In Qatar, come in molti altri paesi del Medio Oriente, vige il sistema della “kafala”: chiunque voglia entrare nel paese per lavorare può farlo solo con l’accordo di un kafeel, cioè uno sponsor locale, che nella maggior parte dei casi coincide con il datore di lavoro. Lo Stato delega al kafeel anche la gestione di tutti gli aspetti legali e burocratici legati alla permanenza del lavoratore e alla sua vita professionale. Necessario è stato l’intervento dell’Oil nel 2017, per eliminare o mitigare gli aspetti più problematici di questo sistema. Ora, almeno sulla carta, i lavoratori non hanno più bisogno del permesso del datore per lasciare temporaneamente il paese e per cambiare lavoro e beneficiano di un salario minimo mensile di 1000 riyal (circa 280 euro).