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Racconti brevi da leggere online: “La vita appesa ai muri”

sabato 9 Febbraio 2019
Giovanni Varvaro (1888-1972), "Danza dell'incantesimo" (1928), 98x89 cm., olio su tela.
Giovanni Varvaro (1888-1972), "Danza dell'incantesimo" (1928), 98x89 cm., olio su tela.

Siamo alla sesta parte del 1° capitolo de “La vita appesa ai muri” di Caterina Guttadauro La Brasca, un nuovo appuntamento di Romanzi da leggere online a puntate.

Giada, reporter di guerra, si imbatte in uno dei soprusi che le guerre portano con se, quando i forti approfittano dei deboli… Li vide andar via come delle bestie sazie e ciò che faceva più male era vederli compiaciuti, quasi orgogliosi di ciò che avevano fatto…

Caterina Guttadauro La Brasca, “La vita appesa ai muri”, Editoriale Programma Ed., Treviso, 2013.

1° capitolo – 6^ parte: l’anima graffiata

Giada camminava con difficoltà, che guaio la fretta, aveva delle scarpe assolutamente inadeguate. Quelle pietre che mettevano a dura prova il suo equilibrio, continuavano a recitare la vita, c’erano tanti reperti di umanità, bastava ascoltare. Qualcosa di scuro attirò la sua attenzione: si chinò e raccolse da terra un rosario di madreperla, miracolosamente integro.

Per quella forma di rispetto che aveva verso tutto ciò che simboleggiava il Sacro, lo tenne in mano mentre affiorava alla sua memoria un altro rosario, modesto, in legno, con ogni grano unito all’altro da un nodo di corda. Era tenuta al collo da una giovane donna, bionda con gli occhi azzurri, che stava per prendere i voti. Per tutti sarebbe stata Suor Chiara ma per lei era Ivanka.

Era anche lei una bimba sfuggita agli orrori di una guerra lontana che l’aveva violentata nell’anima e nel corpo per sempre, in un paese dell’Est Europa, il Kossovo. Giada si ritrova a pensare a un’altra scena di orrore, di quelle che la mettevano in discussione con se stessa, che le procuravano un dolore sordo, cui seguiva sempre la stessa domanda: perché continuo a fare questo lavoro?

Talvolta non aveva avuto neanche il tempo per rispondersi, perché era più necessario correre per trovare un riparo mentre l’aria che respirava era polvere da sparo sospesa. Attorno schizzava il sangue, di vecchi, di bambini, di donne divenute vittime di una guerra, senza saperne la ragione.

Le mitragliatrici sparavano a ripetizione, togliendo a chi stava sotto tiro la speranza di riuscire a mettersi in salvo. La zona in cui si trovava era stata più volte bombardata, molte case erano state rase al suolo, altre danneggiate, ma ancora miracolosamente in piedi.

L’attenzione di Giada fu attirata da una camionetta militare che veniva verso di lei.

Fece appena in tempo a nascondersi in un androne.

La camionetta si fermò e dalla lingua che parlavano Giada capì che erano inglesi.

I soldati scesero e lei avvertì i loro passi sempre più vicini.

Molti giornalisti avevano lasciato la pelle in terre straniere, dove svolgevano il loro lavoro.

La saliva in bocca a Giada si era azzerata ma riprese fiato quando capì che si dirigevano in un bar a fianco, dove a servire c’era una bella e giovane donna che, in quel periodo, aveva l’ingrato compito di essere bersaglio non solo delle armi ma anche della violenza, delle provocazioni di soldati che parlavano un’altra lingua e che, prima di essere soldati, erano uomini testimoni dei loro peggiori istinti, resi predatori dalla guerra, completamente accecati dalla superiorità di appartenere a una grande nazione e che esibivano sfacciatamente. La motivazione per cui combattevano li autorizzava ad approfittarsi di ogni cosa, a trattare la vita alla stessa stregua di una bottiglia di birra. Giada, che conosceva l’inglese, sentiva e capiva bene la conversazione che si stava svolgendo tra la ragazza e i tre soldati. Uno degli uomini chiese, in malo modo, da bere.

La ragazza cercò, con un filo di voce, di far capire loro che non aveva che qualche birra o del vino di produzione dell’Est Europa, la sua terra. La risposta alterò maggiormente l’umore dei tre soldati e uno di loro, forse il loro capo, disse: «Ti conviene obbedire, noi siamo qui per aiutarvi e tu non sei gentile con noi». La ragazza rispose con voce spaventata: «La guerra rende difficile l’approvvigionamento, quello che ancora abbiamo fa parte delle scorte che sono quasi finite.»

«Non ci interessa, si sentì rispondere, se non hai niente da darci, allora prenderemo te». Seguirono grandi risate, miste a pesanti commenti che indignarono Giada che doveva far prevalere il buon senso alla voglia smisurata di uscire allo scoperto e tentare di aiutare quella povera ragazza.

Come avrebbero fatto contro tre uomini?

I dieci successivi minuti durarono una vita e Giada, dai singhiozzi che udiva, capì che, uno dopo l’altro, stavano abusando di quella giovane donna.

Quei soldati, senza rendersene conto, stavano violentando anche lei, che con un fazzoletto in bocca cercava di non urlare.

Chiamò a raccolta tutte le sue capacità di autocontrollo, si costrinse a pensare a cosa fare per aiutare quella ragazza.

Li vide andar via come delle bestie sazie e ciò che faceva più male era vederli compiaciuti, quasi orgogliosi di ciò che avevano fatto. Appena si allontanarono, Giada uscì allo scoperto ed entrò nel negozio senza luce. Faceva fatica a vedere lo scempio che avevano fatto ma i suoi occhi sorvolarono su tutto e si fermarono in un angolo, in cui, piegata su se stessa c’era la ragazza, i vestiti lacerati, lo sguardo atterrito, scossa da singhiozzi al punto che non riusciva a parlare. Vedendo Giada, si mise una mano davanti agli occhi, si raccolse le ginocchia sporche di sangue, come si vergognasse di ciò che era successo.

La vergogna era certamente più grande del dolore che provava.

Stentò a dire il suo nome, si chiamava Ivanka.

Giada aprì il suo zaino e usando qualsiasi cosa, la pulì, l’aiutò a rialzarsi e le chiese dove poteva accompagnarla, dove abitava.

Ivanka disse che viveva con la sua nonna malata, che lei si aiutava lavorando ovunque ce ne fosse bisogno, che tante volte non mangiava per fare nutrire lei. Lei non doveva sapere ciò che era successo, aveva già vissuto una vita difficile e, sapere una verità così amara, l’avrebbe fatta morire.

Nella mente di Giada i pensieri si susseguivano con la stessa rapidità e lo stesso ripetitivo suono delle mitragliatrici. Ecco cos’era la guerra: un abuso di potere sui più deboli, era quella giovane donna incolpevole che, quel giorno, aveva dato alla Patria il suo onore. Lei era stata vittima di coloro che si definivano «liberatori», portatori di pace. Giada fece l’unica cosa possibile, l’aiutò a rialzarsi e vide con quanta fatica riuscì a mettersi in piedi, la strinse a sé e parlandole, come fosse una bambina, le disse che l’avrebbe accompagnata a casa.

Era una casa dignitosa ma molto povera, due sole stanze, una per vivere il giorno e l’altra la notte.

Non c’era il bagno o qualcosa che gli assomigliasse, ma una cabina di legno che, fuori dalla casa, serviva per i bisogni personali.

C’era anche un fienile che raccoglieva cose utili agli uomini e agli animali e, ove fosse necessario, si ospitava lì chi aveva bisogno di passare la notte.

Accanto a una stufa arrugginita una persona anziana, che alimentava il fuoco con un pezzo di cartone.

Giada non poté fare a meno di pensare che, proprio come quel fuoco, tutto in quella casa faticava a vivere. Ivanka, appena entrata, andò dritta verso di lei, l’abbracciò e sfiorandole la guancia, disse: «Nonna sono io, sono tornata prima perché il negozio è stato bombardato e sono scappata». La vecchia signora, con la voce rassegnata, che ha solo chi giorno dopo giorno fa i conti con il dolore, rispose: «Hai fatto bene Ivanka, la tua giovane vita è la sola cosa che siamo riusciti a salvare da questo gioco al massacro che l’uomo combatte, in nome di ideali che si alimentano con la vendetta e la violenza».

La nonna di Ivanka aveva detto queste parole rivolta verso Giada che, con sincero dolore, si accorse che era cieca. Pensò che almeno le veniva risparmiato di guardare gli occhi ancora terrorizzati di sua nipote che non riuscivano a nascondere quello che era appena successo. Ivanka percepì lo stupore di Giada e le disse: «La nonna è cieca per una scheggia che, mentre scappava durante un bombardamento, la colpì agli occhi, rendendoli estranei a ogni cosa. Mia nonna adesso vive soltanto con gli occhi della memoria».

Giada, sempre più sconvolta, le chiese: «Siete sole, non ci sono uomini con voi?»

«Mio nonno è disperso e l’unico fratello che ho, poco più di un bambino, è sui monti a tentare di resistere a questi bastardi».

Giada capì il senso intrinseco di quelle parole e comprese che quella famiglia aveva pagato un prezzo molto alto per la follia distruttiva che l’uomo chiama guerra. Per quanto si sforzasse, non riusciva ad ipotizzare un modo per aiutarle e, quasi senza accorgersene, pensò ad alta voce: «Se potessi vi porterei via con me ma vi farei correre un rischio molto grande». Stavolta fu l’anziana donna a parlare: «Signora, avevo avvertito la sua presenza e comprendo il suo imbarazzo ma non si preoccupi per noi. Ci sono famiglie che non esistono più, bimbi rimasti soli e talvolta segnati per la vita. Lontano da qui potrà fare del bene, aiutando chi è più sfortunato di noi. Io e Ivanka siamo una vita sola e io darei volentieri la mia per fargliene vivere una migliore».

Giada, sorpresa dalla serenità di quella donna, chiese: «Ma io voglio aiutarvi, cosa posso fare?»

«Lei – rispose – ha già fatto tanto riportandomi a casa Ivanka, questa è la nostra Patria, la nostra famiglia, lontani saremmo solo degli esuli, prigionieri di un mondo in cui non ci riconosceremmo. Non abbiamo bisogno di tanto per vivere, abbiamo solo bisogno di pace.»

Giada fu colpita da quella donna coraggiosa che, nonostante il mondo senza luce in cui viveva, capiva che il valore vero della vita sta nel cuore di ognuno, nella capacità che abbiamo di dare e ricevere forza nei momenti più difficili. Si avvicinò a Ivanka e, guardandola negli occhi, disse: «Ivanka forse ti avrei portato con me se non avessi conosciuto la tua famiglia, sì perché tu per tua nonna sei la sua famiglia, come lei lo è per te. Non c’è guerra che possa annullare questa realtà, in un mondo di “non sensi” voi due difendete un valore sacro in senso assoluto: la famiglia». I begli occhi di Ivanka si riempirono di lacrime, erano gocce di dolore e forse di paura per un domani incerto che si apprestavano a vivere due donne sole.

Giada strappò un foglietto dal suo taccuino, scrisse i suoi riferimenti e glielo porse dicendo: «Io sono qui per lavoro, sono una giornalista ma innanzitutto sono una donna e capisco quello che provi. Sono abituata a viaggiare, se ti troverai in difficoltà, scrivimi e farò di tutto per aiutarti.» A Giada non sfuggì l’intensità di quell’abbraccio, si voltò per salutare la nonna e notò che aveva in mano un rosario di legno e corda, il colore sbiadito per il lungo uso, certamente sarebbe stato l’ultimo suo compagno di viaggio. Eppure, pensò Giada, era stata anche lei una giovane donna, aveva sognato un amore per la vita, aveva messo al mondo i suoi figli e faticato per crescerli, ora si sarebbe meritata una vecchiaia serena.

Si fece forza e ritornò nell’inferno che la circondava, seppure per poco, era stata bene in quella casa povera, ma ricca di calore e di buoni sentimenti.

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