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“La mente inquieta degli umanisti e il grande fiume del web”. Intervista a Massimo Cacciari

domenica 7 Giugno 2020

Massimo Cacciari fa paura. Fa paura perché è un filosofo, un accademico, un politico (è stato due volte sindaco di Venezia) e anche un opinionista. Lo conoscono anche coloro i quali non sono addentro al suo pensiero, perché spesso lo si vede in tivù. E spesso, in quei contesti, è famoso per rimbrottare l’interlocutore che la sta sparando grossa con il suo famoso “Ma cosa dice!”. Il professor Cacciari non me ne vorrà se lo sto introducendo così: gli ho presentato il carattere scanzonato di questo spazio, di questa rubrica e, nella comunicazione avuta con lui, ho trovato invece una persona gentilissima, disponibile e pronta all’ascolto. L’oggetto del nostro discutere è una delle sue ultime opere, “La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo”, edito da Einaudi. Non poteva non incuriosirmi l’idea di crisi e di inquietudine per una corrente di pensiero che spesso ci hanno presentato come momento massimo, quasi in senso teleologico, del rinascere dell’uomo dopo la lunga parentesi del Medioevo. Ce l’hanno presentato, in modo spicciolo, per definire e sezionare sbrigativamente le epoche. Ed è così, senza complessità, che si creano generazioni di studenti pronti a ripetere la lezioncina a memoria. Ma, come scrive Lev Šestov: “La filosofia non ha soltanto per origine ma anche per fine l’inquietudine, e non la tranquillità”. Da questa breccia sono partite le mie domande, che, per mia formazione o forse ‘deformazione’ di studi, sono state primieramente di carattere estetico e storico-artistico. Ma non potevo trattenermi dal chiedergli qualcosa di relativo al mondo attuale nel quale viviamo immersi.

Professor Cacciari, ci hanno insegnato e continuiamo a insegnare a scuola come l’Umanesimo abbia trascinato via le superstizioni medievali e abbia messo l’uomo nuovamente al centro del mondo come nell’Antichità. Nel suo saggio “La mente inquieta” lei mette in discussione questo principio in modo illuminante, proponendoci una pacificazione impossibile e una tragicità insita negli umanisti: l’impossibilità di conciliare platonismo e aristotelismo, platonismo e cristianesimo, il ricorso alla Cabala o a un certo tipo di astrologia. L’immagine della “Natività” di Botticelli della National Gallery di Londra – che lei propone tra le tavole alla fine del saggio – può essere assunta a emblema di questo scacco? Le proporzioni delle figure umane assurdamente e polemicamente evase, il disordine rispetto a un mondo che si prefigurava ordinato sono in qualche modo sentore di una crisi che va oltre quella dell’individuo Botticelli?

«Più che esempio di rottura dell’Evo, la “Natività” del Botticelli è testimonianza delle profezie del Savonarola, che non cesseranno di risuonare in tante coscienze del Rinascimento. Ho cercato di spiegarne il senso nel mio libro. Certo, anche questa “icona” appartiene all’orizzonte drammatico dell’Umanesimo».

L’Umanesimo fiorentino ha un contraltare in quello ferrarese, dove l’addizione erculea [l’opera urbanistica della fine del XV secolo, voluta dal duca Ercole I d’Este che presenta non una contrapposizione ma una persistenza con l’assetto medievale della città] conferma l’idea di continuità con le ‘tenebre’ e le superstizioni medievali. E il fenomeno si sviluppa in esiti drammatici nella religiosità di pittori ascetici come Cosme’ Tura. È un caso che Girolamo Savonarola fosse ferrarese?

«L’ambiente ferrarese è particolarmente sensibile a influenze magico-ermetiche e astrologiche. Palazzo Schifanoia ne è il grande exemplum. Ma mai dimenticare che anche queste prospettive potevano essere interpretate in una chiave “scientifica”, secondo un ordine logico. E così avveniva in particolare nell’ambiente padovano. Dal punto di vista delle forme artistiche, poi, non vi è dubbio sulla differenza con Firenze, seppure anche a Firenze amassero i fiamminghi e i nordici!».

L’occhio piumato di Leon Battista Alberti è proposto anch’esso nelle tavole alla fine del saggio. L’occhio piumato eleva l’uomo, fatto a immagine di Dio per le sue doti intellettive. Eppure quella scritta “Quid tum?” [e allora? Che cosa, allora?] che lo accompagna, limita l’idea di un compiuto processo conoscitivo, non del tutto realizzabile, oltre a poter essere intesa anche come uno scherzo. Leon Battista Alberti incorre spesso in questa crisi e in questa inquietudine dell’umanista, anche nel “Momus” [romanzo satirico scritto in latino], dove protagonista è un dio disturbante, istrionico che non si accorda all’ordine dell’Olimpo. Potremmo trovarvi un messaggio valido anche per i nostri tempi?

«Ho scritto un saggio sul Momus, riassunto nel libro. Il Momus è un’opera di grande complessità, e per certi versi molto esoterica. Ma il suo quadro generale mi pare chiaro: il crollo di ogni utopia di poter ordinare la natura umana, di poterne costituire uno Stato».

Nella lettera al Vettori, Machiavelli, prima di vestirsi degli abiti curiali ed entrare nel suo studio, ci mostra brevemente ma nel dettaglio le sue attitudini al dialogo e a una vicinanza con un certo modo popolare e scanzonato di vivere la vita. Questa rubrica che si intitola “Come se fosse Antani” è pretestuosamente chiamata così per scorrere sulla vita in modo antitetico a una visione ingessata della cultura. Le sembra una strada percorribile?

«Il comico è parte integrante della vita. Bisogna sapervi partecipare. Che altro valore avrebbe nel pensiero di Machiavelli la presenza di quell’assoluto capolavoro teatrale che è la Mandragola?».

C’è un grosso scollamento tra altitudini di un suo scritto e i precipizi dozzinali del mondo che ci circonda. Basta guardare un certo tipo di tivù. Ma c’è anche altro ciarpame che si spaccia per cultura: sui social appaiono di continuo messaggi accattivanti su come farsi pubblicare un libro, magari a pagamento. Non è un caso che oggi ci siano ormai più scrittori che lettori. E anche chi appartiene al mondo della cultura non lesina di proporsi e offrire la sua merce con pose che imitano il ‘velinismo’ più esibizionista. Quale Umanesimo è possibile oggi?

«Il web è un grande fiume – porta in sé di tutto, i peggiori cadaveri, i peggiori trafficanti e le migliori comunicazioni. Inutile starci a piangere sopra o a ridere, a condannare o esaltare. Certo, il mezzo tende a indurre al “peggio”, non al “meglio”. Ma nessun destino lo decreta».

Ringrazio il professor Cacciari per avermi dedicato il suo prezioso tempo e rifletto su questa visione finale non del tutto pessimistica che apre un varco, accende un barlume e suggerisce di dare spazio e accogliere, in questo inferno, come direbbe Italo Calvino, ciò che inferno non è.

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