L’8 dicembre 1816, nella reggia di Caserta, Ferdinando III di Sicilia firma l’Atto fondamentale del Regno Delle Due Sicilie decretando la fine del plurisecolare Regno di Sicilia fondato da re Ruggero II nel lontano 1130, o 1139 per richiamare l’investitura legittima.
Ferdinando in questo modo si rivaleva dell’umiliazione subita ad opera dei baroni siciliani che si erano dati una costituzione che il figlio Francesco, suo alter ego, era stato costretto a firmare. In tale contesto, Nicolò Palmieri, scriveva un saggio polemico al re Ferdinando I, dove dichiarava: «Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Noi domandiamo l’indipendenza della Sicilia e i voti non sono solo di Palermo ma della Sicilia intera e la maggior parte del popolo siciliano ha pronunziato il suo voto per l’indipendenza».
In poche parole, la Sicilia da Stato veniva degradata a provincia del nuovo Regno. Nonostante questa drastica riforma Palermo, ch’era prima sede corona regis et caput regni, conservava momentaneamente il suo ruolo di capitale dell’isola come sede del luogotenente del regno, carica di cui era stato preposto il principe ereditario Francesco, ma ancora per poco tempo. Infatti, l’anno successivo, con il decreto che cancellava tutte le precedenti riforme costituzionali, la capitale veniva definitivamente spostata a Napoli.
Al di là del significato politico che ebbe questa scelta, più rilevanti, in negativo, furono le ricadute economico-sociali che questo declassamento ebbe sulla vita della città. Palermo era da tempo una città di aristocratici che consumavano le immense risorse, accumulate in secoli di sfruttamento e di abusi, nel fasto e nelle esteriorità, e Palermo era anche una città burocratica dove si concentravano i luoghi del potere siciliano gestiti nella maggior parte dei casi da un ceto parassitario attento a garantire i propri privilegi e ad approfittare degli incarichi raggiunti. Palermo era, infine, la città degli avvocati, tutti impegnati in controversie, spesso futili, ma sempre frutto dell’alta litigiosità che segnava la società palermitana.
Con la decisione assunta nell’ottobre del 1817 – con la quale si spostavano i centri di potere e le alte corti giudiziarie – veniva, dunque, meno quel certo benessere che l’essere capitale aveva assicurato. Di contro, bisogna aggiungere che per le altre città siciliane non sarebbe valso l’antico adagio “Se Atene piange, Sparta non ride”. Infatti, non solo Messina, che con Palermo aveva un conto aperto sulla primazia in Sicilia, ma anche Catania e Siracusa, non apparvero più di tanto offese per le decisioni regie. Quella che appariva una punizione della superba Palermo, veniva in qualche modo accolta con favore dalle città concorrenti. Non è un caso che di lì a poco, con i moti rivoluzionari del 1820/21, le tre città in questione quasi si defilarono e, ancor di più, non si riconobbero nel nuovo governo insediatosi a Palermo e, addirittura, infersero all’antica capitale un pesante schiaffo morale inviando i propri rappresentanti a Napoli, dove i rivoluzionari erano riusciti ad imporre a re Ferdinando la firma di una costituzione modellata su quella adottata dalle Cortes Cadice nel 1812.