Il 3 maggio è la giornata internazionale della libertà di stampa.
L’informazione indipendente e libera è una risorsa irrinunciabile per ogni democrazia e ai giornalisti, soprattutto a quelli impegnati sui fronti delle guerre, della lotta alle criminalità organizzate e dell’opposizione alle dittature va tributato da chiunque un omaggio e un ringraziamento sincero, mentre il rispetto e il ricordo vanno ai giornalisti che sui quei fronti hanno perso la vita.
Agli amici giornalisti, un tempo solo cani da guardia della democrazia ma oggi più che mai cani da guardia della verità e della libertà in tutti gli scenari più controversi, voglio fare un piccolo regalo per la giornata loro dedicata.
In tanti, giustamente, ricorderanno oggi esempi fulgidi e luminosi di giornalisti caduti nell’adempimento del proprio dovere, a volte per il concretizzarsi del rischio insito negli scenari nei quali operano ma più spesso uccisi da mani potenti per la loro capacità di cercare caparbiamente e far conoscere verità scomode.
Io, invece, voglio attingere alle mie conoscenze scientifiche per ricordare alcuni esempi negativi.
Ricordarli non solo per fare in modo che possano risaltare ancor di più le gesta positive delle donne e degli uomini che sono simbolo della libertà di stampa ma soprattutto perché non si perda la memoria di errori che, se dimenticati, saremo costretti a ripetere.
Il mio regalo è una brevissima sintesi, priva di commenti, dei processi internazionali svolti, o in corso di svolgimento, a carico di giornalisti, o meglio di propagandisti, che hanno supportato dittature, incitato e giustificato guerre, violenze e genocidi senza che la tessera “press” abbia garantito loro alcuna immunità perché, per usare le parole del Pubblico Ministero di uno di tali processi “ la responsabilità del genocidio non è limitata a coloro che materialmente commettono gli omicidi. Coloro che diffondono il messaggio d’odio attraverso i mezzi di comunicazione e convincono le persone normali ad uccidere sono molto peggio di coloro che mettono in esecuzione le loro parole”.
La promozione e l’esecuzione di vaste e ripetute campagne di odio e disinformazione, indirizzate contro uno specifico gruppo nazionale, religioso, etnico, politico o sessuale, infatti, non è solamente moralmente o deontologicamente censurabile ma può, a determinate condizioni, costituire un potente incentivo o una consistente agevolazione alla realizzazione di crimini internazionali e, quindi, integrare un’ipotesi di concorso dei responsabili dell’informazione distorta e violenta nella realizzazione di tali crimini.
E’ una scelta che ha radici lontane, tanto che già il 3/11/1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua risoluzione A/428, condannò “ogni forma di propaganda, in qualsiasi paese condotta, indirizzata o comunque idonea a provocare o incoraggiare ogni minaccia alla pace, ogni violazione della pace o qualsiasi atto di aggressione”.
Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 sottolinea, poi, al suo articolo 20 che “qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge – e – qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge”.
La giurisprudenza internazionale conosce rilevanti esempi, di giornalisti, editori e conduttori di trasmissione radiofoniche riconosciuti colpevoli di crimini internazionali per le parole di odio e di disinformazione veicolate al pubblico attraverso i mezzi di comunicazione.
Il giornalista Julius Strejcher, fondatore ed editore della rivista settimanale “Der Sturmer”, fu condannato a morte, eseguita mediante impiccagione, dal Tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità perché le falsità con le quali aveva descritto gli ebrei e le loro azioni si erano rivelate un formidabile incentivo per attivare la persecuzione contro gli ebrei e giustificare omicidi e stermini.
Hans Fritzsche era conduttore di un programma radiofonico di successo e poi sottosegretario, con delega al settore radiofonico, del Ministero della Propaganda del regime nazista, diretto da Paul Joseph Goebbels, il quale non poté, invece, essere processato per essersi suicidato dopo aver ucciso i sei figli e la moglie.
Il conduttore fu giudicato da un tribunale tedesco, nell’ambito dei processi ai criminali di guerra dei quali il Tribunale di Norimberga non si era occupato per la minor importanza dei soggetti che se ne erano resi responsabili, e condannato a nove anni di lavori forzati per aver agevolato, attraverso i suoi discorsi di odio e disinformazione trasmessi via radio, la creazione nel popolo tedesco di un diffuso sentimento favorevole alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei che rese successivamente possibile, o comunque agevolò, la realizzazione dei crimini perpetrati dai nazisti e dalle truppe tedesche.
Otto Dietrich, capo ufficio stampa del Reich e sottosegretario allo stesso Ministero della Propaganda, subì analogo processo con analoghe imputazioni e una condanna a sette anni di reclusione.
Ma il caso più recente e più significativo, conosciuto come “media case” o “hate media trial”, è quello esaminato dal Tribunale Internazionale per il Ruanda che portò già nel 2003 alla condanna all’ergastolo di Ferdinand Nahjmana e a 35 anni di reclusione a Jean-Bosco Barayagwiza, fondatori della “Radio Televisione Libera delle Mille Colline”, conosciuta come Radio Machete” e “Radio Odio”, e alla condanna all’ergastolo per Hassan Ngeze, giornalista fondatore ed editore del settimanale Kangura, per la campagna di odio e di disinformazione diretta verso l’opinione pubblica che portò al genocidio dei Tutsi, una delle etnie presenti nel paese, mentre un altro giornalista di nazionalità belga, attivo in “Radio Machete”, Georges Ruggiu, si era già riconosciuto colpevole ed era stato condannato a 12 anni di reclusione.
La condanna fu allora salutata con favore, tra gli altri, da “Freedom House” e “Reporter senza Frontiere”.
Nel motivare l’entità della pena inflitta a Nahjmana il Presidente del Tribunale Internazionale evidenziò che lo stesso “era pienamente consapevole del potere delle parole e usò la radio – un mezzo di comunicazione che raggiunge un vasto pubblico – per disseminare odio e violenza. Senza un’arma da fuoco, un machete o qualsiasi arma fisica causò la morte di migliaia di civili innocenti”.
Ancora oggi è in corso, avanti il Meccanismo Residuale Internazionale per i Tribunali Penali, una Corte che si occupa dal 2010 dei casi residui che sarebbero stati di competenza dei Tribunali Internazionali per il Ruanda e per la ex Jugoslavia, oramai disciolti, il processo a carico di uno degli editori di Radio Machete, Felicien Kabuga, sfuggito precedentemente all’arresto ma poi catturato a Parigi nel maggio del 2020 ed ora in carcere all’Aja in attesa della celebrazione del processo.
Buona celebrazione a tutti noi della giornata di oggi, dedicata alla vera libertà di stampa, con un pensiero particolare a tutti i giornalisti indipendenti che hanno perso la vita o sono impegnati negli scenari di guerra o nei paesi oppressi dalle dittature per documentare l’assurdità di atrocità e violenze che avrebbero dovuto restare sepolte nel passato e che invece si affacciano minacciose sul nostro futuro.