I reparti di ortopedia e traumatologia degli ospedali, spesso non correttamente classificati come esposti a rischio radiologico, possono essere causa di tumori. A pagarne le conseguenze, spesso in modo drammatico, sono gli operatori sanitari, per l’appunto esposti ai rischi. Una recente sentenza in riva allo Stretto mette un punto fermo sulla questione.
La Corte d’Appello di Messina, accogliendo la tesi dell’avvocato Santi Delia, ha condannato l’Inail a riconoscere la malattia professionale ad un dirigente medico che, in qualità di chirurgo, effettuava un centinaio di interventi all’anno.
Sino al 2014, tuttavia, l’Azienda non aveva ritenuto di classificare il reparto come soggetto a rischio radiologico ragion per cui tutti i dipendenti dello stesso, sino ad allora, non hanno fruito delle “protezioni di legge” dedicate ai lavorati che agiscono in tali contesti a rischio. Si tratta, in particolare, oltre ai riconoscimenti economici, del congedo biologico, della sorveglianza dosimetrica e delle visite periodiche di controllo, al personale medico e tecnico di radiologia per il quale sussiste una presunzione assoluta di esposizione a rischio. Al fine di evitare che il nostro organismo subisca gli effetti devastanti delle radiazioni, difatti, è imposto un congedo di ulteriori 15 giorni utili ad imporre l’allontanamento del lavoratore dai locali e dagli strumenti potenzialmente pericolosi così da “disintossicarlo”.
Nel caso sottoposto alla Corte d’Appello uno dei medici del reparto, pur non avendo mai aveva sofferto di antecedenti morbosi o traumatici di rilievo, risultava affetto da una rara forma di leucemia.
Secondo l’INAIL, tuttavia, l’avere contratto una leucemia dopo 25 anni di esposizione alle radiazioni non era sufficiente per ottenere i risarcimenti di legge. Non solo l’Istituto negava il riconoscimento della malattia professionale e della relativa rendita ma, anche, dopo l’accoglimento del ricorso in primo grado, agiva in appello.
Secondo l’Istituto “i livelli di esposizione del ricorrente, quale medico ortopedico, non possano essere considerati idonei casualmente all’insorgenza della patologia e, quindi, la stessa non può essere considerata malattia professionale, richiamando il calcolo della probabilità causale che, in prospettazione dell’appellante, è sufficiente a fornire la “prova contraria” della natura tecnopatica della malattia stante il basso grado percentuale rilevato di esposizione. Il criterio della probabilità di causa, sul quale l’appellante fonda le ragioni del suo gravame, offre una stima quantitativa del rischio e si fonda sulla acquisizione dei seguenti dati: periodo lavorativo, classificazione, tipo di radiazioni, dosi assorbite e modalità di esposizione“.
La verifica concreta dell’esposizione, tuttavia, in un reparto non classificato, non può affatto, secondo la difesa del medico fatta propria dalla Corte d’Appello, “risente, evidentemente, del basso livello di attenzione, in quegli anni, da parte del personale preposto alla sorveglianza sull’effettivo utilizzo di tali presidi, in un periodo nel quale l’attenzione alle esposizioni alle radiazioni ionizzanti non era avvertita, per come ricavabile dal contesto dell’ambiente di lavoro prima descritto. Da ciò deriva che non può dirsi provato il regolare e costante utilizzo di detti dosimetri, soprattutto negli anni 90-2000, nel reparto del ricorrente e, quindi, la sostanziale incertezza sui dati esposti dall’Azienda. Non può escludersi, inoltre, che il dosimetro -applicato al camice comunemente utilizzato in reparto- non fosse presente in quello adoperato per gli interventi in sala operatoria o quando si faceva uso dell’intensificatore di brillanza“.
La Corte ha dunque valorizzato le difese del medico evidenziando come “il “tardivo” riconoscimento del rischio radiologico, a fronte di immutate condizioni lavorative e di esposizione alle radiazioni, avvalora la probabilità rilevante che il ricorrente abbia contratto la patologia a causa di quanto denunciato in atti”.
Si tratta, commenta l’avvocato Santi Delia, “di una sentenza che mira a fare da apri pista a numerosi altri casi in Italia. Sono numerose, difatti, le Aziende sanitarie che continuano a non adeguare i propri standard di taluni reparti alle normative europee (e non solo interne) a tutela dei lavoratori. Prima ancora che talune Aziende, difatti, è l’Italia ad essere in ritardo nell’aggiornamento degli standards di sicurezza. La Commissione europea, difatti, ad inizio 2019, ha inviato all’Italia un parere motivato (il secondo stadio della procedura di infrazione) per chiedere al nostro Paese di trasporre nel proprio ordinamento le nuove norme previste dalla direttiva Ue sugli standard basilari di sicurezza, che modernizza la legislazione europea in materia di protezione dalle radiazioni. La direttiva, che avrebbe dovuto essere tradotta in legge entro lo scorso 6 febbraio, delinea standard basilari di sicurezza per proteggere lavoratori, utenti e pazienti dai pericoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti, usate a scopi medici, ma anche industriali. Tali interventi, seppur oggi tardivi per taluno come il mio assistito nel caso trattato, possono salvare la vita a molti altri in futuro”.