“Speranze e delusioni”, il titolo di questo saggio di Calogero Pumilia e Vito Riggio edito da Rubbettino, evoca suggestioni letterarie da romanzo ottocentesco ma trae in inganno visto che, si tratta di una ricostruzione rigorosa – introdotta da una prefazione puntuale e non certo di circostanza di Calogero Mannino – di quella che è stata la storia politica della Sicilia e del comune di Palermo, in un periodo critico come furono gli anni ’80.
Una storia al cui centro sta un partito, che molti meriti ha acquisto ma che si è macchiato proprio in Sicilia di un grave peccato per non essersi, guardato dentro per potere separare, secondo la parabola evangelica, il grano dal Loglio. Quel partito, la Democrazia cristiana, oggi non c’è più ma ne è rimasta in piedi la leggenda nera, un poco onesto mainstream sostiene Mannino, che lo riguarderebbe.
Una leggenda compendiata in una sentenza da alcuni considerata inappellabile: la Dc come il partito della mafia o del malaffare. Una perversa narrazione che ha consentito in alcuni casi di trasformare le vittime in carnefici. Certo, lo conferma Pumilia, con meritevole onestà intellettuale – che della politica regionale della DC si occupa nella prima parte del libro – per un lungo tempo segmenti, seppur minoritari, del partito erano stati compromessi con la mafia e, soprattutto, si era registrata una complessiva sottovalutazione dello stesso problema mafia, condizioni questa che aveva impedito di assumere una chiara e netta posizione di contrapposizione al fenomeno criminale prestando così il fianco a molte critiche.
Ma aggiunge Pumilia, non dare il corretto rilievo all’opera di rinnovamento e pulizia avviata dal partito fra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, non ha reso giustizia alla verità storica. Proprio in quegli anni, in particolare al Congresso di Agrigento, la Dc siciliana – ed il merito andava a Calogero Mannino e Sergio Mattarella – aveva, infatti, avviato un’opera di rinnovamento assumendo un preciso e non equivoco profilo antimafia di cui era stata testimonianza significativa l’emarginazione e la successiva espulsione di personaggi compromessi col sistema criminale come il chiacchieratissimo Vito Ciancimino. E tutto questo mentre, di lì a poco, partiva un’offensiva giudiziaria, troppo spesso animata da preconcetti e pregiudizi personali e ideologici, che metteva sotto accusa, vedi in particolare i casi Andreotti e Mannino, alcuni degli uomini più rappresentativi della stessa Democrazia cristiana.
Vito Riggio, nella seconda parte del volume in questione, si sofferma invece soprattutto su Palermo che, della storia raccontata ha costituito il luogo critico per eccellenza, e lo fa con un approccio originale “un memoir romanzesco – lo definisce Mannino nell’introduzione – dove l’io biografico è il soggetto coprotagonista con l’oggetto raffigurato”. Ed in effetti il racconto della Palermo degli anni ottanta e della Democrazia cristiana che ne è stata la principale protagonista, finisce – ed è normale che ciò accada – per centrarsi sulla straordinaria avventura di Leoluca Orlando. Un personaggio che, nel bene e nel male, è stato l’attore principale di quella Palermo palcoscenico d’Italia, come l’ebbe a indicare un suo mentore e lui stesso coprotagonista di quella avventura come lo fu Ennio Pintacuda.
A Orlando si è accreditato, e non senza ragioni, il rinascimento di Palermo dopo gli anni bui che ne avevano profondamente ferito l’identità materiale e spirituale. Ma dietro quella rinascita ci racconta l’autore con quel pizzico di legittimo risentimento di chi avendo le carte in regola per raggiungere l’obiettivo, che si è visto, proprio da Orlando, rubare la scena, hanno concorso molte congiunture positive e lo sforzo di tanti la cui presenza è stata oscurata dalla spregiudicatezza del primo attore. Orlando, per Riggio, resta una figura complessa, un ambizioso che “cercava più luce (mehr licht) e anche più gloria” un abile giocatore, che ha costruito la propria immagine sulla denuncia, in qualche caso gratuita, sull’azzardo, alzando il tiro sempre più in alto, sui facili slogan, con manifesto cinismo, azzerando, come un rullo compressore, tutto quanto si frappone come ostacolo alla sua promozione personale perfino sviluppando, e ricorriamo a Freud, un’attitudine ad uccidere il padre, dove per padre si intendono le sue stesse origini culturali e politiche. Dunque positività e negatività insieme che si riflettono nel bilancio finale della sua lunga sindacatura, il cui saldo registra, purtroppo per lui, soprattutto la incapacità o, piuttosto, la sufficienza con cui ha amministrato la città. Orlando, a dispetto della immagine pubblica che l’ha accompagnato avrebbe invero mancato importanti obiettivi, come la crescita e la modernizzazione della città. insomma, dalle pagine colte di Riggio, viene fuori un altro Orlando come scriverebbe Diderot, che Orlando, un gigante dai piedi d’argilla.”