La caponata, oggi, è una delle pietanze più rappresentative della ricca e variegata cucina siciliana. E come gran parte della gastronomia isolana, vanta una storia complessa e millenaria.
Infatti, il termine “caponata” potrebbe derivare dalla “caupona” (ma su questa origine del termine sussistono molti dubbi), parola con cui s’indicava la taverna degli antichi romani nella quale veniva preparata una pietanza piuttosto semplice costituita da verdure condite con olio e aceto. Naturalmente, questa preparazione è molto lontana da quella odierna, anche perché nell’antichità le melanzane erano sconosciute e il sedano veniva utilizzato poco in cucina. Quindi, in origine, l’antenato della caponata era un piatto parecchio semplice consumato soprattutto dai ceti meno abbienti.
Soltanto molti secoli dopo, precisamente durante la dominazione spagnola, la caponata divenne una portata aristocratica, venendo arricchita con crostacei, polipetti e diversi tipi di pesce. Ancora siamo parecchio distanti dalla ricetta a noi contemporanea: si trattava, infatti, di un piatto non a base di melanzane ma a base di pesce dove il protagonista era, spesso, il capone, un pesce condito con una salsina agrodolce, da cui potrebbe anche derivare il nome del piatto.
La prima versione della caponata un poco più vicina a quella odierna la troviamo nel trattato culinario “Cucina teorico- pratica con corrispondente riposto” fatto stampare a Napoli nel 1837 dal suo autore, il cuoco e letterato Ippolito Cavalcanti. Secondo quest’ultimo, la caponata andava preparata con fette di pane biscottate e bagnate con olio, aceto bianco, sale e pepe per poi essere ulteriormente insaporita con erbe aromatiche, scarola e lattuga. Infine, andava aggiunto del pesce: si poteva trattare di alici, nella ricetta più semplice, oppure di cefalo, merluzzo o sgombri, nella ricetta più elaborata. In ogni caso, Cavalcanti non parla minimamente del pesce capone.
L’assenza di quest’ultimo ci ripresenta inevitabilmente l’interrogativo precedente: qual è l’origine etimologica del termine “caponata”? Secondo una delle teorie linguistiche più autorevoli presenti nell’ “Atlante Linguistico della Sicilia” (il cui progetto editoriale è ancora in corso) la radice del termine caponata, quindi cap-, si riferirebbe allo “sminuzzare” al “tagliare” delle verdure e degli ortaggi, base principale del piatto di oggi.
Al di là delle origini del termine, piuttosto difficili da individuare e da ricostruire con un certo grado di certezza, è evidente che ancora ai tempi di Cavalcanti la ricetta della caponata fosse molto distante dall’attuale. In realtà, vi è un unico elemento in comune tra le due ricette, tra quella ottocentesca e quella attuale, cioè la salsetta agrodolce con cui all’epoca si condiva il pesce e con cui adesso, invece, s’insaporiscono le verdure e le melanzane. Per cui, molto probabilmente, il passaggio dall’una all’altra ricetta avvenne in ambito popolare dove si cercò di riprodurre una pietanza delle classi agiate. Infatti, ricordiamoci che un atteggiamento quasi sempre diffuso tra le classi popolari di ogni tempo è stato quello di emulare le abitudini alimentari (e non soltanto queste) delle élite. Tutto ciò vale anche per la nostra caponata. Per cui, in una dimensione di emulazione, i ceti popolari sostituirono, probabilmente, il capone e il merluzzo con le melanzane e altre verdure.
Nella seconda metà dell’ottocento il vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina, pubblicato nel 1860, descrive la caponata come “un manicaretto ov’entra del pesce, petronciani (nome per indicare una tipologia di melanzane) o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più in freddo”. Traina non fornisce una ricetta ben precisa, in quanto circolavano diverse varianti del piatto, la cui versione più completa prevedeva l’uso di melanzane, carciofi, sedano, peperoni, olive, aglio, cipolla, capperi, sale, olio su cui si potevano aggiungere polipetti, pesce spada, aragoste e mandorle tritate. E poi, a completare il piatto l’immancabile sapore agrodolce del sugo di pomodoro con l’aggiunta di aceto e zucchero. Ecco che la ricetta tramandataci da Traina inizia ad avvicinarsi molto a quella di oggi, con la comparsa delle melanzane.
Tantissime sono le varianti che si sono affermate a seconda delle località. Sicuramente, la ricetta più conosciuta al mondo è quella palermitana, la quale prevede che le melanzane siano tagliate a tocchetti di uguale misura e che le olive siano intere, schiacciate e denocciolate. Anche la ricetta trapanese è molto diffusa e fino a qualche decennio fa i trapanesi solevano aggiungere alla caponata le parti meno pregiate del tonno, come il budello o il ventre essiccati, prodotti facilmente reperibili in una città, come Trapani, strettamente legata alla tradizione delle tonnare. Nella caponata trapanese, ormai, il pesce è del tutto assente, rimanendo la base di melanzane. Un’eliminazione del pesce che sancisce l’affermazione della ricetta più povera rispetto a quella nobiliare.
Una vicenda quella della caponata da cui emerge tutta la ricchezza della storia siciliana e da cui è possibile intravedere le molteplici influenze che hanno agito sull’evoluzione di un piatto che ha attraversato i millenni. Dalla ricetta romana, molto arcaica e incredibilmente distante dalla pietanza odierna, trattandosi di un’insalata, si passò alla versione baronale-spagnola attraverso cui la caponata divenne un piatto aristocratico a base di pesce. Per poi affermarsi nell’ottocento la ricetta che prevedeva le melanzane, spesso, associate al pesce.
Infine, è soltanto negli ultimi decenni che la presenza del pesce è stata del tutto eliminata, almeno nelle versioni più diffuse come quella palermitana e trapanese, anche se una variante molto diffusa attualmente è la cosiddetta “caponata di pesce spada”, con i tocchetti di pesce aggiunti agli altri ingredienti.