“U Fistinu“ in onore di Santa Rosalia, la Santuzza, è alle porte e non so e a voi capita lo stesso, ma mi sento “assicutata”, ovunque vada, dal profumo dei babbaluci.
La verità è che, scolpita nella mente, ho l’immagine del Foro Italico, dove i festeggiamenti si concludono con la sfilata del Carro della Patrona, trasformato in un tappeto colorato di bancarelle con appetitoso cibo da strada, su cui troneggiano i succulenti “babbaluci”. Una curiosità etimologica riguarda l’origine del nome, che ha due ipotesi. Secondo la prima deriverebbe dall’arabo “babush“, scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, da cui “babusce” o “babucce”, pantofole di pezza in siciliano; la seconda al greco arcaico “boubalàkio“, bufalo, a cui venivano paragonati per via delle corna.
Ma chi era “U babbaluciaru?”
Questa figura quasi mitica, entrata nella tradizione, si alzava alle prime luci dell’alba, sia in autunno che in inverno, e, dopo un’abbondante e benedetta pioggia, andava a raccogliere i “crastuna”, lumache grosse e dal guscio scuro, per avviarsi, poi, col suo sacco a tracolla e un paniere in mano, verso la città, abbanniando: “C’è ù babbaluciaru, haj i crastuna nivuri! Accattativi i crastuna!” In estate, invece, racimolava le lumache piccole, dal guscio bianco che, attaccate sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o di cardi spinosi, erano arse dal sole.
Ma come si mangiano i babbaluci?
Ci sono diverse scuole che a tal proposito: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco dal guscio; ma il vero palermitano ama mangiarle “cu u scrusciu”, cioè con il rumore del risucchio, praticando un piccolo foro sulla chiocciola con il dente canino, nella parte opposta all’apertura, proprio come un novello vampiro per aspirare le tenere carni, che si scioglieranno in bocca.
A chi risalirebbe il loro uso culinario?
Partiamo dal fatto che non vanno mangiati appena trovati perché, spesso, si nutrono di erbe che potrebbero essere tossiche per l’uomo. E’ buona abitudine, quindi, farli spurgare per almeno tre giorni. Un tempo, per facilitarne la pulizia dell’intestino, venivano posti in grandi calderoni messi al sole con acqua fredda, a cui si aggiungeva della mollica di pane o del pangrattato di cui le lumache, ghiotte, s’ingozzavano per poi sbarazzarsene “naturalmente”. Oggi, invece, per facilitare il tutto, si toglie il velo con uno stuzzicadenti, li si mette in una ciotola in acqua tiepida, prendendo quelli che fanno capolino dal guscio e ponendoli in un altro contenitore, sempre in acqua tiepida. Dopo queste operazioni, li si sciacqua 6,7 volte, li si versa in una pentola con acqua fredda e li si fa cuocere a fiamma molto bassa. Quando usciranno nuovamente dal guscio, si potrà continuare la cottura per altri 5 minuti e, infine, a fuochi spenti si lasceranno riposare per, poi, aggiungere il sale. Adesso andiamo non a una, ma a due ricette.
Babbaluci in bianco”
Ingredienti:
- 1 testa d’aglio
- 1 mazzetto di prezzemolo
- olio extravergine d’oliva
- sale
- pepe
Preparazione:
1. Soffriggete in abbondante olio, l’aglio tagliato grossolanamente e il prezzemolo tritato.
2. Aggiustate di sale, pepe e aggiungete le lumache. Fate cuocere a fiamma moderata, per circa dieci minuti, e servite spolverizzando con pepe e abbondante prezzemolo tritato.
Babbaluci a picchi pacchiu”
Ingredienti:
- 1 Kg di babbaluci
- 3 cipolle
- 400 g di pelati
- olio extravergine d’oliva
- sale
- pepe
- prezzemolo
Preparazione:
1. Dopo la pulitura, mettete in una pentola acqua e babbaluci assieme, a fuoco basso, per farli uscire dal loro guscio. Solto dopo li farete bollire per qualche minuto. Salate e scolate.
2. Fate il picchi pacchiu soffriggendo in olio d’oliva: cipolla tritata, pomodori pelati a pezzetti, sale, pepe e prezzemolo.
3. Una volta cotto il sugo, versate i babbaluci e arriminate.
Al “Viri chi dannu chi fannu i babbaluci”, cantata da Roy Paci, aggiungiamo: “Viri chi beni chi fanno i babbaluci”.
Viva Palermo e Santa Rosalia.