Il 13 giugno 1860, conquistata Palermo, a Garibaldi si pone il problema della presenza, ingombrante, delle “squadre” popolari, i cosiddetti “picciotti”, la cui irrequietezza non consente un ritorno all’auspicata normalità cittadina.
Già nel ’48, e lo sarà ancor di più nel 1866, questi irregolari, molto spesso composti da malavitosi e, in qualche caso, da infiltrati dalla mafia, avevano creato e creeranno problemi di ordine pubblico non indifferente per provvedere ai quali verrà istituita una “guardia nazionale”, composta da volontari, per lo più borghesi, con l’incarico di far rispettare, con le buone o con le cattive, l’ordine pubblico.
Il generale Garibaldi, che si era assicurata la vittoria proprio grazie alla promessa del ripristino della sicurezza pubblica, si rendeva infatti conto che il permanere delle squadre in città avrebbe ben presto mutato il favore popolare in evidente disagio fino a creare un’opposizione che, in quel momento topico della sua “memorabile impresa”, non si poteva permettere. Liquidare le squadre diveniva così imperativo categorico al quale, nonostante non fosse uno sperimentato politico, non poteva dunque sfuggire.
Mentre, quindi fervevano i preparativi per il nuovo balzo in avanti che, di qui a qualche settimana avrebbe portato alla conquista dell’intera isola, si riunì in segreto con Francesco Crispi, il segretario di stato del governo provvisorio, e alcuni dei suoi più fidati collaboratori, e pose loro il problema del che cosa fare. Da quella riunione venne fuori l’ordinanza del 12 giugno con la quale il responsabile degli interni, il prof. Gaetano La Loggia, istituiva la Guardia nazionale e, il giorno dopo, un decreto a firma dello stesso Garibaldi, indirizzato “Alle squadre cittadine”, con il quale dava il benservito a quella poco affidabile marmaglia a cui, in qualche modo, doveva riconoscenza per il successo della conquista di Palermo.
Il decreto, quasi sicuramente di mano di Crispi, che è un capolavoro di bizantinismo politico, inizia con un retorico blandimento dei destinatari nel quale si riconosce loro il contributo decisivo dato all’impresa e la gratitudine della patria italiana per la liberazione della terra di Sicilia. Parole auliche come “voi che conservaste il sacro fuoco della libertà sulle vette dei vostri monti” inframmezzano, volutamente, il testo prima di arrivare alla stoccata finale. E la stoccata finale si condensa nella frase “Voi potete tornare oggi alle vostre capanne con la fronte alta, colla coscienza di avere adempiuto un’opera grande” etc. etc. E proprio su quel ritorno, che è poi un invito, si direbbe prosaicamente “a togliersi dai piedi”, c’è lo scivolone terminologico che nasconde una forte riserva ideologica.
Come appare chiaro, il decreto non parla di “ritorno alle proprie case” ma di “ritorno alle capanne”, termine scelto, e in questo Crispi, grande giurista era maestro, a seguito di puntuale riflessione che nasconde, ma non troppo, un evidente disprezzo nei confronti di quella marmaglia che -, non si finirà mai di affermarlo, era stata essenziale per la vittoria- e però appare necessario liquidare immediatamente per non creare ulteriori gravi problemi.
Naturalmente, Garibaldi comprende la gravità della decisione e, proprio per questo motivo, non tralascia di indorare la pillola con uno zuccherino. E lo zuccherino è che le loro “mani incallite”, quelle dei picciotti, stringendo la mano a Garibaldi non l’avevano stretta ad uno dei tanti dominatori che avevano calpestato quella terra, ma l’avevano stretta a colui che si proclamava platealmente e pubblicamente loro “fratello”.
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