La letteratura sui Florio, parlo della dinastia imprenditoriale che, per tutto l’ottocento e i primi del novecento, ha mostrato un’immagine della Sicilia alquanto diversa da quella che tradizionalmente ci ha consegnato la storia, si arricchisce di nuove opere o di riedizioni e rielaborazioni di opere che hanno avuto nel passato un certo successo. Mi riferisco, come novità ai “Leoni di Sicilia” il romanzo della brava Stefania Auci, che ha avuto un successo editoriale che ben pochi si attendevano, a cui segue, fresco di stampa, “L’inverno dei leoni” con altrettanto prevedibile successo. E mi riferisco anche alla sceneggiatura di un film su Franca Florio che Gesualdo Bufalino aveva preparato e che, pare, dovrebbe essere pubblicato nei Meridiani di Mondadori.
Per non parlare della riedizione del “Donna Franca Florio” di Anna Pomar, libro che, a suo tempo, mi introdotto nel mondo dei Florio che conoscevo solo superficialmente. Oggi torna, in una edizione rielaborata e con una veste editoriale di tutto rispetto, il ponderoso volume – non so se definirlo romanzo storico o storia, quella vera, offerta in forma romanzata, “Ignazio Florio, il leone di Palermo” di Salvatore Requirez edito da Nuova Ipsa. Proprio su questo volume mi soffermo per consigliarne la lettura visto che si tratta di un’opera, sia dal punto di vista letterario che da quello storiografico, certamente di qualità alta, in grado di soddisfare i palati più fini. Senza lasciare nulla all’enfasi, e nel rispetto del “mito” – visto che il “mito”, come ci insegnano i cultori di scienze umane, va in ogni caso rispettato -, l’autore ci offre infatti un’immagine, la più realistica possibile, dell’ultimo Florio e del contesto nel quale si è svolta la sua vicenda. Ignazio Florio jr., troppo presto alla guida di un impero economico costruito con tetragona volontà, e molta spregiudicatezza, dal nonno Vincenzo e rafforzato dal padre Ignazio, appare un personaggio incerto troppo condizionato dallo schiacciante peso della storia imprenditoriale di cui era erede. Un individuo tutto compreso nello sforzo di essere preso in considerazione non come il rampollo di cotanti ascendenti ma come un imprenditore capace a prescindere da essi.
Ma proprio questa ricerca di una dimensione identitaria viene contraddetta dal fatto che non riuscisse a capire che il tipo di imprenditoria, che il nonno e il padre avevano sviluppato, andava confrontato con le nuove domande dei mercati ciò che significava abbandonare talune attività per dedicarsi ad altre. Non è un caso la sua inattitudine a cogliere, come invece qualcuno gli aveva consigliato, le opportunità offerte da comparti nuovi come “il gas, l’elettricità, l’auto”, per citarne alcuni. La poca chiarezza sull’evoluzione dei mercati lo spingeva invece a scelte sbagliate e, fra esse, quella dell’ampliamento del cantiere navale di Palermo contando, come nel passato avevano fatto i suoi ascendenti, sugli aiuti statali. Ma non solo le scelte imprenditoriali sbagliate che una dietro l’altra portarono ad un impressionante indebitamento, a pesare c’era anche il tenore di vita al di là del consentito e del consentibile che conduceva. “Ignazio, si legge nel romanzo, si era fatta la fama di sprecone, di dissipatore incosciente.“ Certo, era indubbio che il Florio amasse la bella vita, il lusso, l’esteriorità e soprattutto le donne con le quali intrecciava rapporti superficiali peraltro agevolati dagli splendidi regali che, più con prodigalità che generosità, era solito elargire. In tutte queste avventure, invaghimenti molto spesso fugaci, non se ne ritrova una dettata da sentimento vero – e quando per una volta lo trova non riesce a percepirne il valore -, e cioè che prescindesse dai favolosi regali che accompagnavano le singole avventure.
A moderarne gli appetiti e a ricondurlo a ragione, non contribuiva neppure il contesto nel quale viveva. Uno stuolo di adulatori, di parassiti che vivevano sulle sue spalle, che pescavano a piene mani nel patrimonio della ricca famiglia, ma anche gli stessi familiari, il fratello Vincenzo, che di affari non volle mai sapere nulla ma che in cambio non si fece mancare nulla e, soprattutto la moglie Franca, frutto di un giovanile incapricciamento della quale però non riusciva a fare a meno. Una donna superficiale dedita al lusso e all’esteriorità che conduce uno stile di vita da sovrana orientale, che ama essere ammirata, che si perde fra gioielli, profumi e balocchi. Non è un caso che Requirez le possa mettere in bocca frasi come “Se mi ami, giurami di farmi un regalo enorme”, in cui l’amore perde ogni valore spirituale per mutarsi in avido desiderio di possesso di beni materiali. “Troppo lusso nella vita quotidiana, troppe spese, troppi sfarzi”.
E tutto questo non poteva non portare a quella che potremmo chiamare “una catastrofe annunciata”. Così, come le rondini del Gattopardo, una dopo l’altra le imprese dei Florio volano via, cioè passano di mano, l’impero solidissimo che aveva destato le invidie del mondo, si sgretola. Una melanconica fine per coloro che, lo fa dire Requirez al protagonista, erano stati per un secolo la testimonianza che i siciliani potevano essere capaci di fare cose grandi. E torniamo al mito, ciò che resta dei Florio è la Palermo del culto della bellezza, dell’effimero, dello spreco, del vivere la vita come un sogno dal quale non ci si debba mai risvegliare. Una città che, grazie alla spinta dei Florio, si arricchisce di una monumentalità nuova e fascinosa che la porta a competere con le capitali d’Europa che riesce a nascondere dietro la bellezza, la miseria, il degrado, il dominio dell’illegalità. Fa bene Requirez a mettere in bocca al fallito barone Jacona, padre di donna Franca, questa frase che mi pare sintetizzi l’essenza effimera di questa Palermo dei Florio “Cose di questa città – dice il barone – non abbiamo un ospedale degno di questo nome e facciamo teatri nuovi, a due a due”.