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V - III secolo a.C.

Chi sono Miteco, Labdaco e Terpsione? Delle celebrità in cucina

giovedì 18 Luglio 2024

Oggi partiamo da un mistero: chi sono Miteco, Labdaco e Terpsione? Il primo si legherebbe, per l’etimologia, al greco Mìthaikos e al latino Mithaecus; il secondo, Làbdacos, potrebbe essere figlio di Polidoro e nipote di Priamo ed Ecuba; Terpsione, invece, discepolo di Socrate e testimone della sua morte. Totalmente fuori strada, perché questi  signore e signori, nel mondo greco tra il V e il III sec. a. C., erano delle vere celebrità in cucina e avrebbero ricevuto, ai giorni nostri, sicuramente 3 stelle Michelin. Insomma, Miteco, Labdaco e Terpsione erano dei ricercatissimi  cuochi siracusani, che facevano scuola, nel senso che tracciavano la strada con la loro genialità a quelli che sarebbero venuti dopo. Il nostro Gualtiero Marchesi, scomparso nel 2017, considerato il fondatore della nuova cucina italiana e, a parere di molti, lo chef italiano più noto al mondo. I tre protagonisti, al centro del nostro racconto, sono considerati gli inventori della cucina siciliana antica e tutti, dico tutti, facevano a gara per apprendere i segreti, come affermava lo storico Domenico Scinà.

Platone scrisse che nell’isola si mangiava “lautamente e splendidamente, e a piena pancia due volte al giorno”. Al tempo dei Romani era comune il modo di dire “siculus coquus et mensa siculo”, un invito ad avere un cuoco siculo e a mangiare, di conseguenza rigorosamente siciliano e, per indicare banchetti particolarmente abbondanti , si esclamava: “come una mensa siracusana”.

Parlando di Miteco, di cui si dice fosse un sofista, paragonato allo scultore Fidia e autore del primo ricettario di cucina siciliana della storia dell’Occidente, venne accolto trionfalmente in tutte le città greche, tranne che nella rigorosa Sparta, per cui il cibo era solo un mezzo per ritemprarsi dalla fatica e non di certo un lusso. Per il nostro master chef, ante litteram, invece, era l’arte di saper comporre tra di loro gli alimenti. Di Miteco ci rimane una sola ricetta, tramandataci da una citazione in Deipnosophistai, “Sofisti a banchetto”, un’opera in 15 libri di Ateneo di Naucrati e riguarda il modo di cucinare la cepola, un pesce comune nel mediterraneo che oggi mangiamo in zuppa o nelle fritture di paranza, e che lui “manipolava”, cosi: “taglia, scarta la testa, lava, affetta; aggiungi formaggio e olio d’oliva”. 

Vista la vicinanza con i Monti Iblei, troviamo pasta e timballi generalmente conditi con carne come, ad esempio, i Lolli, piccole tagliatelle essiccate e condite con sugo di carne suina o bovina o con brodo di fave (Lolli no Maccu) e da non dimenticare la tradizionale pasta fritta alla Siracusana. Passando a Labdaco di Siracusa, fu il fondatore, nel III sec. a. C., della prima scuola di cucina e Terpsione, raccogliendone l’eredità, fondò una sua accademia culinaria dove si insegnava l’arte di preparare i banchetti, accogliere e servire gli ospiti e trovare i corretti abbinamenti tra cibo e vino, una sorta di “Cortesia per gli ospiti”, senza l’aspetto del game show. C’è una ragione se parlo sempre di “Grosso, grasso, patrimonio siculo” e non perché sia siculocentrica, ma perché l’Italia, anzi il mondo “senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nello spirito. Qui è la chiave di ogni cosa”.  Qualcuno, per caso, avrebbe il coraggio di contraddire Goethe?

 

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